La scienza fa sognare un mondo senza plastica
di Gianluca De Angelis
I tentativi per far decrescere l’utilizzo della plastica si stanno moltiplicando di anno in anno così come, d’altronde, sta gradualmente aumentando anche la presa di coscienza collettiva sulla pericolosità di questo materiale per gli oceani e, più in generale, per tutto l’ambiente terrestre. I danni della plastica per gli ecosistemi di tutto il mondo stanno diventando infatti sempre più evidenti, con centinaia di campagne per la sensibilizzazione e documentari che mostrano studi riguardanti i danni che potremmo essere costretti ad affrontare tra poche decine d’anni: basti pensare, per esempio, come nel 2017 si sia riscontrato il livello più alto mai registrato di microplastiche fra i ghiacci artici. Secondo un campione raccolto dagli scienziati incaricati di controllare lo stato di inquinamento dei poli, infatti, in un solo litro d’acqua estratta dai ghiacci sono al momento presenti un’equivalente di 12.000 particelle di microplastiche di 17 tipi, che vanno dalle confezioni, alle bottiglie, alle vernici: una cifra che spaventa soprattutto per l’ampio distacco dai numeri emersi nelle analisi precedenti.
Ma dalle ricerche e dagli studi arrivano anche notizie positive: sono molti, infatti, i materiali alternativi alla plastica che si stanno sintetizzando in laboratorio, alcuni dei quali sembrano effettivamente dei sostituti che potrebbero essere presto utilizzati su larga scala. Tra tutti, uno dei più interessanti è stato recentemente annunciato attraverso una pubblicazione sulla rivista Science, che ha reso nota infatti una sostanza “sosia” della plastica in quanto a robustezza e resistenza, teoricamente riutilizzabile infinite volte. La ricerca, condotta dalla Colorado University, promette di rivoluzionare il concetto di riciclo: i costi, chiaramente, sono ancora da quantificare, ma secondo i ricercatori guidati da Eugene Chen questa nuova sostanza potrebbe porsi come un possibile sostituto della plastica anche nell’uso quotidiano. Il materiale è formato da una lunga catena di molecole che presentano, infatti, le stesse caratteristiche della plastica: a differenza di quest’ultima, tuttavia, la struttura può essere riportata facilmente nella sua forma originaria, senza dover utilizzare sostanze tossiche e procedure complesse. Successivamente le molecole possono poi essere riutilizzate e rimodellate, secondo quello che Chen ha definito un “ciclo vitale circolare”.
Per quanto riguarda, invece, la pulizia dell’ambiente dai rifiuti plastici, una possibile soluzione è arrivata quasi per caso. La scoperta arriva dagli sforzi combinati dell’Università britannica di Portsmouth e del Laboratorio Nazionale per le Energie Rinnovabili (Nrel) del Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti, dove i ricercatori Harry Austin e Gregg Beckham stavano compiendo alcuni studi su un enzima che esiste in natura e che è prodotto da un batterio ghiotto di plastica: precisamente l’Ideonella sakaiensis, individuato per la prima volta in un sito per il riciclo di bottiglie nel porto di Sakai, in Giappone.
Durante gli studi, infatti, alcune modifiche apportate alla struttura molecolare dell’enzima sono state in grado di renderlo, sorprendentemente, ancora più rapido nell’avviare il processo di digerimento del PET (Polyethylene terephthalate, un polimero utilizzato per rendere la plastica più resistente e impiegato soprattutto nelle bottiglie). Utilizzando il Diamond Light Source, uno strumento vicino a Oxford che produce raggi X 10 miliardi di volte più intensi di quelli del Sole, è emerso infatti come la struttura atomica dell’enzima fosse molto simile a quella prodotta dai batteri per degradare la cutina, la sostanza idrofoba che riveste molte parti esposte delle piante.
Quando il team ha poi alterato la struttura dell’enzima per esplorare questa connessione evolutiva, le sue capacità di degradare il PET sono migliorate del 20%: dal riciclo si otterrebbero delle fibre (utilizzabili per produrre abiti e tappeti). Il margine di miglioramento, oltretutto, è ancora molto ampio e la tecnologia potrebbe ottimizzarlo per renderlo, nei prossimi anni, ancora più veloce. Una delle possibilità maggiormente prese in considerazione sarebbe quella di fonderlo con i batteri estremofili, particolarmente resistenti e capaci di sopportare temperature superiori ai 70 °C di fusione del PET.
La sostanza è lontana diversi anni dall’essere commercializzata, ma potrebbe essere la chiave per rivoluzionare il riciclo di questo materiale: nel mondo la vendita di bottiglie di plastica è infatti ancora altissima, con un milione di unità al minuto. L’Italia, ad esempio, si attesta ancora su cifre impressionanti di vendita di bottiglie di plastica, tanto da essere il primo Paese in Europa e il secondo nel mondo (dietro solo al Messico) per consumo di acqua imbottigliata: nonostante gli incentivi europei a diminuire questo giro d’affari, quello italiano gravita attorno ai 10 miliardi di euro all’anno con oltre 260 marchi, distribuiti in circa 140 stabilimenti, e un consumo pro-capite che si attesta sui 206 litri annui. E visto che non riusciamo a cambiare abitudini, forse la plastica sintetica e questo nuovo piccolo batterio potrebbero essere l’unico rimedio nei prossimi anni per aiutarci a salvare l’ambiente.