mercoledì, Maggio 8, 2024
Fitoterapia

Dalle erbe la cura del covid-19

Diversi studi di laboratorio (in vivo e in vitro) dimostrano l’azione antivirale dei principi attivi di alcuni rimedi vegetali che aiutano soprattutto nella riduzione dei tempi di ospedalizzazione e nella riduzione di complicanze e mortalità

I bollettini del Ministero della Salute ci informano che stiamo avendo più di 40.000 nuovi casi di covid-19 alla settimana, con un trend in crescita negli ultimi mesi. Nell’ultima settimana i nuovi casi sono stati 41.626, una cifra ancora importante, sebbene in lieve flessione. Per fortuna la mortalità non è più quella del 2020, attestandosi oggi allo 0,31% dei malati, e le terapie intensive non sono più sotto pressione come allora.

In sostanza questa malattia è stabilmente presente nel nostro territorio, non più frenata dai mezzi di profilassi – le mascherine, le norme igieniche, il distanziamento nei luoghi pubblici – che abbiamo deciso di abbandonare. La campagna vaccinale ha avuto pieno successo nel ridurre drasticamente i casi gravi, ma non ha eradicato la virosi, che è rimasta endemica nel nostro come in altri Paesi.

Le cure specifiche – cioè i farmaci antivirali e gli anticorpi monoclonali – sono costose e non prive di effetti indesiderati, per cui, giustamente, vengono riservate alle persone a rischio elevato per comorbilità o per la gravità della malattia.

Per tutti gli altri la guarigione è la cosa più probabile, anche se il cosiddetto “long covid” è molto frequente (dal 25 al 50% dei casi secondo alcune stime) ed altre sequele, come la sindrome infiammatoria multi-sistemica dei bambini e la miocardite, sebbene rare, sono molto gravi. Né mancano altri tipi di conseguenze, come ad esempio l’ipertensione arteriosa (21% dei pazienti ospedalizzati per covid) che, oltretutto, può essere causata anche dalla vaccinazione.

Sarebbe bello avere una qualche cura efficace, economica e applicabile a tutti. Ufficialmente non esiste, ma in realtà qualcosa si è mosso nel mondo della medicina.

Se si va a ricercare su PubMed, il servizio di ricerca on line che permette l’accesso alle banche dati di letteratura scientifica biomedica, ci si imbatte in alcune interessanti pubblicazioni. Si tratta di studi clinici controllati, che riguardano rimedi di tipo erboristico usati con efficacia nella cura del Covid. Tali rimedi provengono dalla locale etnomedicina, cioè dalle tradizioni popolari di cura, ma non solo. Vi sono infatti anche diversi studi di laboratorio (in vivo e in vitro) che dimostrano l’azione antivirale dei loro principi attivi.

Ed è un fatto interessante: le scienze biomediche e la tradizione popolare convergono nell’indicare una cura, la cui efficacia e tollerabilità è stata poi verificata con studi clinici, secondo una corretta e moderna metodologia.

Inoltre, l’uso tradizionale dei rimedi su ampie popolazioni e per periodi di tempo plurisecolari ha un valore aggiunto: è la migliore dimostrazione della loro tollerabilità. Indubbiamente si è venuto a creare un modello di ricerca molto promettente.

Vediamo allora alcuni dei medicamenti studiati.

L’olio di semi di Nigella sativa (o cumino nero) è stato somministrato a malati di covid-19 non ospedalizzati. Rispetto alle cure standard ha dato risultati statisticamente significativi in termini di abbreviazione della malattia e di riduzione delle complicanze e mortalità.

Lo stesso rimedio, usato in associazione ad altre “droghe” vegetali (rabarbaro, liquirizia, melograno, camomilla, ortica ed altre) su pazienti ospedalizzati con polmonite, ha portato al dimezzamento della durata del ricovero, al miglioramento della sintomatologia e, soprattutto, alla riduzione dei ricoveri in terapia intensiva e della mortalità rispetto ai controlli.

In Cina è stato testato il principio attivo dell’Andrographis paniculata, somministrato endovena a pazienti con covid lieve-moderato. Si è ottenuta l’abbreviazione della malattia, la riduzione del tempo di eliminazione del virus e l’azzeramento dei casi di peggioramento clinico (e, ovviamente, dei decessi) rispetto alle cure standard.

Più recentemente (il lavoro è stato pubblicato pochi mesi fa) è stato studiato un estratto di foglie di ulivo titolato al 30% di oleuropeina su pazienti con polmonite da coronavirus. Anche in questo caso si è ottenuto il miglioramento dei sintomi, dei parametri respiratori e degli esami di laboratorio già dopo pochi giorni di cura, nonché una riduzione significativa della durata della malattia.

Vorrei soffermarmi un momento sula tipologia di queste pubblicazioni. Si tratta di “Randomized Controlled Trial” (studi randomizzati e controllati): chiariamo, per i non addetti ai lavori, che secondo le regole della medicina basata sulle prove di efficacia – la cosiddetta “Evidence Based Medicine” – questo tipo di indagine ha il maggior livello di attendibilità tra tutti i tipi di studio clinico. I miglioramenti ottenuti nei pazienti trattati sono risultati di elevata significatività statistica: sempre per i non addetti ai lavori, ciò vuol dire che non è possibile che siano casuali. Inoltre, nei lavori sono citati diversi studi sperimentali che dimostrano l’attività antivirale dei medicamenti esaminati.

Infine, l’olio di nigella, l’estratto di foglie d’ulivo e molti altri dei rimedi presi in esame associano all’attività antivirale un’azione antinfiammatoria, antiossidante o immunomodulante, che contribuisce alla guarigione del paziente. È, questa, una peculiarità di molti medicamenti erboristici, nota come “pleiotropismo”, cioè la caratteristica di lavorare su più aspetti fisiopatologici della malattia o, per dir meglio, dell’organismo che si vuol curare. Una cosa che i farmaci industriali non riescono proprio a fare.

Non è interessante?

Purtroppo, questi risultati non sono stati divulgati dai mezzi di comunicazione più diffusi, né menzionati dai tanti esperti di covid-19 che abbiamo imparato a conoscere. Né mi risulta che le istituzioni sanitarie pubbliche se ne stiano occupando. Eppure ci vogliono pochi minuti e nessuna spesa per trovare gli articoli che parlano di queste esperienze di cura: basta un collegamento a internet. È lecito, dunque, chiedersi il perché di tale disattenzione.

Capisco che pochi lavori possano non essere ritenuti del tutto convincenti.  Ma allora perché non approfondire le indagini sull’argomento? In ogni caso si tratta di lavori tecnicamente corretti, pubblicati su riviste “indexate”, che sottopongono gli articoli al vaglio di una commissione scientifica e fanno parte – tra l’altro – della National Library of Medicine dei National Institutes of Health degli Stati Uniti, nel cui ambito opera PubMed.

E poi, non è nuovo né strano che dei farmaci efficaci provengano dal mondo delle piante: se in passato queste fornivano quasi la totalità dei medicamenti, ancor oggi il 40% dei farmaci trae origine più o meno direttamente da piante medicinali. Senza di queste, ad esempio, non esisterebbe l’anestesia generale, che tutt’oggi fa uso di sostanze derivate dal papavero da oppio (la morfina e le sue più recenti modificazioni), da una liana amazzonica (il curaro) e dalla belladonna (l’atropina). L’elenco dei farmaci di origine vegetale è lunghissimo, e sarebbe noioso snocciolarlo tutto. Ricordo soltanto, a titolo esemplificativo, che nel 2015 il Nobel per la medicina è stato assegnato alla dottoressa Tu Youyou per aver isolato un importante principio antimalarico dall’artemisia annua, seguendo i dettami di un antichissimo testo di medicina cinese.

Forse potrebbe lasciare perplessi il fatto che i lavori citati prendano spunto dall’etnomedicina, cioè dalle tradizioni tutt’altro che scientifiche di popolazioni esotiche, come quelle cinesi, indiane, arabe, africane eccetera. In realtà, l’Organizzazione Mondiale della Sanità fin dagli anni settanta si è posta il compito di rivalutare e studiare le diverse tradizioni etno-mediche. Infatti l’etnomedicina costituisce l’unico accesso alle cure per una larga fetta della popolazione mondiale (parliamo di miliardi di persone) e già solo per questo merita di essere studiata. Ma, soprattutto, l’OMS riconosce agli studi di etnomedicina pari dignità rispetto all’evidence based medicine, purché sottoposti a peer review (revisione tra pari), come necessario per qualunque indagine in ambito medico. D’altronde nessuna sperimentazione clinica moderna può vantare un’esperienza di secoli su una popolazione di svariati milioni di soggetti.

Pur escludendo la malafede e le teorie complottiste, temo che vi sia una certa sudditanza psicologica nei confronti di una cultura mainstream, o forse un qualche pregiudizio verso quelle che vengono definite “medicine alternative”. Ma il metodo scientifico, cui tutti pretendono di far riferimento, ha come base irrinunciabile l’assenza di pregiudizio e l’abbattimento del principio di autorità.

Fatto sta che abbiamo a disposizione nuove possibilità di cura, e sarebbe ora di occuparsene con la dovuta serietà.

Autore

  • Cesare Pirozzi

    Laureato in medicina, specialista in chirurgia generale e chirurgia pediatrica, per quarant'anni ha esercitato a tempo pieno la professione di chirurgo e, in minor misura, di docente. Ritiratosi dal lavoro ospedaliero nel 2014, specializzatosi in Fitoterapia, ha proseguito nell'insegnamento presso l'Università della Tuscia (Viterbo) ed ha dato finalmente spazio alla sua passione per le humanae litterae (sue pubblicazioni: "Canto segreto", piccola raccolta di poesie; "Il segreto di Dante", saggio in cui propone la sua interpretazione del senso anagogico della Divina Commedia; "La natura delle cose", frutto del suo mai sopito interesse verso la scienza e la filosofia, particolarmente verso le aree del sapere che entrambe le discipline, apparentemente così lontane, tornano oggi a condividere). Oltre che su mediaquattro.it scrive articoli di divulgazione medica, di attualità politica e di costume su varie riviste cartacee e online.

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