domenica, Aprile 28, 2024
Agricoltura

La guerra del grano miete per primi gli agricoltori

Grano

di Cristiana Persia

Ancora una volta tutto il comparto dell’agricoltura cerca di fronteggiare una delle anomalie più grandi che investe l’economia del settore: la differenza speculativa fra costo corrisposto al produttore e costo finale con cui lo stesso prodotto – anche se lavorato – arriva al consumatore. Dopo ortofrutta e latte adesso è la volta del grano. Perché anche per il frumento nazionale, secondo i dati diffusi da Ismea, il prezzo registrato a luglio è crollato del 42% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.  Come è possibile –  si chiede Coldiretti – che il grano duro oggi venga pagato 16 centesimi al chilo, quello per fare il pane appena 14 centesimi e poi – quasi incomprensibilmente –  questi prezzi quando compriamo un chilo di pasta aumentino del 500%, mentre si parla di pane possiamo trovarci davanti a rincari che sfiorano il 1400%?

E se già i prezzi pagati ai nostri agricoltori sembrano assurdi – ricordiamo: l’Italia è il primo Paese produttore al mondo per il grano duro – questi subiscono però un’ulteriore concorrenza dall’import.  Nel 2015 il nostro Paese ha importato 2,3 milioni di tonnellate di grano duro e ben 4,3 milioni di tonnellate di frumento tenero. Il tutto senza che il consumatore finale possa essere informato su quel che sta comprando.

“Ciò – sottolinea il presidente di Coldiretti Roberto Moncalvo – nonostante il fatto che la consultazione pubblica online promossa dal Ministero delle politiche agricole abbia certificato che ben l’85% dei consumatori italiani ritiene importante che l’etichetta riporti sempre l’indicazione del Paese di origine delle materie prime adoperate”.

Già,  perché – come noto –  il disciplinare che regola l’etichettatura sugli alimenti, per i prodotti che includono i cereali, non prevede l’indicazione del Paese di provenienza di quest’ultimi.

 

L’impegno del Governo

Il tavolo della filiera cerealicola convocato oggi dal ministro Maurizio Martina ha messo a punto sotto l’egida del Ministero di via XX settembre alcune proposte operative per tentare di salvaguardare gli agricoltori e il grano italiano.

“C’è bisogno di un piano nazionale cerealicolo che punti alla qualificazione della nostra produzione e consenta ai trasformatori di acquistare sempre più prodotto 100% italiano.. In questo senso – ha sottolineato il ministro – abbiamo messo a disposizione 20 milioni di euro per sostenere investimenti infrastrutturali nei sistemi di stoccaggio allo scopo di valorizzare grano di qualità certificata, favoriamo nuovi contratti di filiera e istituiremo un marchio unico per grano e prodotti trasformati. Allo stesso tempo – prosegue Martina – vogliamo dare una risposta alla necessità di maggiore trasparenza nella formazione del prezzo. Per questo abbiamo proposto al tavolo l’istituzione di una Commissione Unica nazionale per il grano duro che favorisca anche lo sviluppo di migliori rapporti interprofessionali. A questo si aggiunge la decisione di confermare il budget dedicato al frumento negli aiuti accoppiati e la sperimentazione di uno strumento assicurativo sui ricavi che garantisca ai produttori di non essere eccessivamente danneggiati da fasi di mercato come quella che stiamo vivendo”.

 

La posizione dei  pastai

Un percorso che prelude alla possibilità di certificazione per esaltare l’origine 100% Made in Italy  che potrebbe però paradossalmente porre molti problemi alla nostra industria della pasta. Secondo quanto riportato oggi nel corso di un’audizione presso la Commissione Agricoltura della Camera dei Deputati da parte del segretario del gruppo Pasta di Aidepi (Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiana), Cristiano Laurenza, il problema risiederebbe nello scarso contenuto proteico del grano italiano – elemento che invece garantisce la perfetta tenuta in cottura della pasta – e che obbliga tutti gli anni i pastai italiani a miscelare le farine nazionali con farine estere che presentano requisiti più idonei.

Imporre all’industria  nazionale della pasta, che destina oltre il 55% della produzione all’export, di indicare una eventuale provenienza “estera” di parte del prodotto, significherebbe quasi certamente depotenziarla nei confronti di altri Paesi,  quali la Turchia, l’Egitto e la stessa Russia, che si stanno affermando come competitor di primo piano sui mercati internazionali.  Difficile poi, ha sottolineato Laurenza,  che le perdite in questo settore possano essere compensate da un innalzamento dei consumi interni. I dati riportati in Commissione Agricoltura da Aidepi parlano di pesanti compressioni. Si è passati dai 26/28 chili pro capite del 2014, ai 25 chili registrati nel 2015, con una tendenza che anche quest’anno dovrebbe mostrare una ulteriore diminuzione.

 

La replica degli agricoltori

“Quello dell’acquisto di grano duro dall’estero non è un fenomeno nuovo – ribatte da parte sua il presidente della Confederazione Italiana Agricoltori (CIA) Dino Scanavino, in una dichiarazione a mediaquattro.it  – la novità è semmai nella speculazione selvaggia che si sta attuando quest’anno. Non si capisce perché l’industria trasformatrice italiana l’anno scorso ha pagato il grano duro anche fino a 35 euro al quintale e adesso lo vuol pagare 19 euro. Tra l’altro non è vero che la qualità sia inferiore, anzi, rispetto al 2015 è senz’altro migliorata”.

“Il fatto è che preferiscono utilizzare grano acquistato 3 o 4 mesi fa e che arriva in Italia in condizioni non sempre perfette, mal stipato e conservato – continua Scanavino – quindi spesso qualitativamente inferiore a quello nazionale. Tutto per comprimere il prezzo del nostro grano duro che ormai non conviene più coltivare: per poter sopravvivere, un agricoltore italiano dovrebbe ricavare almeno 28/30 euro a quintale, visto che i costi di produzione si aggirano sui 25 euro”.

Né i contributi della PAC sono sufficienti per colmare il divario. “Al momento gli agricoltori regalano ai molitori almeno 200 euro ad ettaro del contributo”, sostiene il presidente della CIA, per il quale, anche se difficilmente perseguibile “sarebbe opportuna un’azione per limitare l’import. Così come dovrebbero funzionare meglio i Consorzi Agrari, per stoccare i quantitativi di grano che adesso vengono gettati sul mercato gonfiando la speculazione”.

Resta il fatto che la produzione nazionale di grano duro, come evidenziato anche oggi al Mipaaf, deve migliorare sia in qualità che in quantità. “Gli agricoltori stanno già intervenendo – sottolinea Scanavino – con tecniche culturali appropriate, utilizzando varietà geneticamente migliori frutto del lavoro sperimentale delle Università, recuperando varietà antiche”.

“Ma è tutta la filiera che deve contribuire al miglioramento del made in Italy – conclude – perché anche nella produzione della pasta, ad esempio, occorre utilizzare tecniche che non facciano degradare la qualità del nostro grano. Per affrontare la concorrenza dei produttori esteri è necessario lavorare tutti insieme, senza furbizie o speculazioni. Altrimenti agli agricoltori non converrà più  seminare frumento”.

E che esista questo rischio viene paventato anche dalla Coldiretti. Gianluca Lelli, responsabile nazionale delle politiche economiche della confederazione, ci ha detto infatti che “il vero problema è quello di garantire lo sviluppo armonico di una delle filiere più rappresentative della tradizione italiana, proteggendola da speculazioni così vistose come quelle che abbiamo visto in questo periodo. Manovre così dure per il ribasso del prezzo di vendita, che non hanno trovato corrispondenza per alcuno dei prodotti analoghi sul mercato internazionale, possono scoraggiare i nostri agricoltori e innescare un meccanismo di abbandono della coltura o di risparmio sui seminativi che porterebbe a compromettere in maniera irreversibile l’intera filiera”.

 

Autore

  • Roberto Ambrogi

    Giornalista professionista, specializzato nel settore economico-finanziario con pluridecennale esperienza maturata attraverso tutti i tipi di media (agenzie di stampa, quotidiani e periodici, radio, tv e web). Esperto di comunicazione, effettuata in vari settori economici (per conto di società finanziarie, industrie agroalimentari, aziende commerciali e turistiche) e politici (Responsabile rapporti con la Stampa di Partiti e Gruppi Parlamentari).

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