COP 28: quando le volpi ospitano un congresso di galline
La riunione, presieduta dall’amministratore delegato della principale compagnia degli Emirati, ha visto la partecipazione dei rappresentanti dei maggiori Paesi produttori di petrolio.
Si è conclusa la COP 28 di Dubai, ed è stato davvero un evento storico.
Infatti, mai una conferenza internazionale sui cambiamenti climatici era stata presieduta da un petroliere; mai in una COP erano stati accreditati così tanti rappresentanti delle compagnie produttrici di gas e petrolio. Per dirla con un’ironica allegoria, mai un congresso di galline aveva ospitato tante volpi.
Ma vediamo in dettaglio le peculiarità della COP 28.
La COP 28 è stata presieduta da Sultan Ahmed al-Jaber, amministratore delegato di Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC), la principale compagnia petrolifera degli Emirati ed una delle più grandi del mondo. Un bel conflitto d’interessi.
Il Center for Climate Reporting (organizzazione no-profit di giornalismo investigativo) e la BBC hanno di recente pubblicato documenti riservati secondo i quali gli Emirati Arabi Uniti (di cui al-Jaber è ministro e che ospitano l’evento) intendevano utilizzare la COP 28 come piattaforma per discutere accordi commerciali con 30 paesi, tra cui la Cina, per «valutare congiuntamente le opportunità internazionali del gas naturale liquefatto». Ovviamente il “Sultan” ha negato che fosse vero, ma io non sono molto incline a credergli, considerando l’insieme dello scenario.
Tasneem Essop, direttore esecutivo di Climate Action Network, ha dichiarato che è «imperativo che il mondo sia rassicurato sul fatto che [al-Jaber] si dimetterà dal suo ruolo di amministratore delegato di ADNOC. Non può presiedere un processo che ha il compito di affrontare la crisi climatica con un tale conflitto di interessi, guidando un’industria che è responsabile della crisi stessa. Se non si dimettesse dalla carica di amministratore delegato, equivarrebbe a una conquista su larga scala dei colloqui climatici delle Nazioni Unite da parte di una compagnia petrolifera nazionale e dei suoi lobbisti associati». E Teresa Anderson, responsabile giustizia climatica di ActionAid ha affermato: «Stiamo vedendo sempre più gli interessi dei combustibili fossili prendere il controllo del processo e modellarlo per soddisfare le proprie esigenze. Per essere presi sul serio come intermediari onesti per il cambiamento, gli organizzatori del vertice devono fare di tutto per evitare un conflitto di interessi».
Ovviamente questi appelli sono caduti nel vuoto.
A parte questo, c’è da chiedersi come al-Jaber la pensi sul problema di cui la COP deve occuparsi. Ebbene, “al-Jaber ha affermato che non esiste evidenza scientifica che indichi che è necessaria l’eliminazione graduale dei combustibili fossili (phase out) per limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C e che la loro eliminazione non consentirebbe lo sviluppo sostenibile «a meno che non si voglia riportare il mondo all’età delle caverne». Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha commentato: «Affermazioni assolutamente preoccupanti e sull’orlo del negazionismo climatico»” (Wikipedia, COP28). Ma io direi ben oltre l’orlo.
Ma non basta. Kick Big Polluters Out, l’associazione internazionale che si batte per la difesa dell’ambiente ed è sostenuta da 450 associazioni ambientaliste nel mondo, ha calcolato che almeno 2.456 lobbisti dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) sono stati accreditati alla COP 28, contro i 636 della COP 27: quasi quattro volte più dell’anno precedente. Un buon numero è stato accreditato dall’Unione Europea ed in particolare dall’Italia: per quest’ultima risultano 19 accrediti, 14 in rappresentanza dell’ENI, 4 di SNAM e 1 di Edison. L’ENI si occupa, come dice il nome, di estrarre e vendere idrocarburi, gli ultimi due di usarli e farli viaggiare: un altro evidente conflitto d’interessi. In particolare, ENI è stata citata in giudizio da Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadini e cittadine, “per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui Eni ha significativamente contribuito” (ilfattoquotidiano.it).
Grazie all’accredito ufficiale, i lobbisti hanno accesso ai negoziati istituzionali, proprio come le rappresentanze degli Stati, e sono più numerosi della maggior parte di queste. Ma poi, a che titolo partecipano alla COP? quale mai sarà il loro ruolo, se non quello di difendere i propri interessi economici, che sono la causa prima del problema che si vorrebbe combattere?
L’OPEC, poverina, non è rappresentata ufficialmente, ma si è fatta viva presso gli Stati membri o alleati (dagli Emirati alla Russia) con una lettera, nella quale chiede di “rifiutare qualsiasi testo o formula che miri all’energia, cioè ai combustibili fossili, piuttosto che alle emissioni”. La notizia è riportata da diversi giornali di tutto il mondo e spiega bene le ambiguità di diversi governi.
Quanto all’Italia, ha già presentato il suo biglietto da visita accreditando i lobbisti delle sue società interessate al fossile, quelle con cui vorrebbe attuare l’ambiguo “piano Mattei”, del quale si capisce solo una cosa: che vuole estrarre e trasportare ancora più gas, in linea con l’OPEC. Il ministro Pichetto Fratin, uomo di punta (almeno ufficialmente) della delegazione italiana, è stato molto criticato per la sua totale mancanza di esperienza sui temi di energia e ambiente e nel campo delle relazioni internazionali, e per la sua invisibilità nei lavori della Conferenza; comunque, ha il grave handicap di non parlare inglese. E in effetti è rientrato in Italia prima della fine dei lavori e della formalizzazione del documento conclusivo, mai così incerto e controverso come quest’anno. Forse la sua presenza gli è sembrata superflua, visto che già c’erano Descalzi e soci.
Purtroppo, l’Italia ha frenato fortemente sulle energie rinnovabili ed è “retrocessa nella classifica delle performance dei principali Paesi del pianeta: scende dal 29° al 44° posto, perdendo ben 15 posizioni. Un risultato dovuto soprattutto al rallentamento della riduzione delle emissioni di gas serra (37° posto della specifica classifica) e per una politica climatica nazionale (al 58° posto) fortemente inadeguata a fronteggiare l’emergenza. Lo dice il rapporto annuale che Germanwatch, Can (la più grande rete al mondo con oltre 1.900 Ong in più di 130 paesi che lavorano per combattere la crisi climatica) e NewClimate Institute hanno realizzato per l’Italia in collaborazione con Legambiente e presentato alla COP28” (Il Sole 24ore, 8/12/2023).
Mi chiedevo che cosa volessero dire alcuni slogan propugnati dal governo, come “contrastare questo fanatismo ultra-ecologista” (Meloni), “non far pesare su famiglie e imprese le battaglie ideologiche di un fanatismo ambientalista” (Pichetto Fratin), o “transizione non ideologica” (ancora Meloni). Ho il sospetto che per il governo ridurre le fonti fossili sia espressione di ideologia e fanatismo, che la transizione debba attuarsi nei modi e nei tempi dettati dalle lobby del fossile, e che non sia la crisi climatica a pesare sulle famiglie e sull’economia, ma il fanatismo ultra-ecologista. Sta di fatto che quest’anno la transizione in Italia è rallentata, mentre i danni della crisi climatica continuano ad aumentare, anche in Italia, anno dopo anno.
Forse il risultato più eclatante di COP 28 è stato che una ventina di Paesi, guidati da Francia, USA e Regno Unito, si sono impegnati a triplicare il nucleare entro il 2050 per ridurre le emissioni. Sembra, a prima vista, una mossa antiambientalista, considerata l’aura sinistra che circonda il nucleare dopo Chernobyl e Fukushima; tuttavia l’argomento merita una riflessione seria.
Permettetemi a questo proposito una digressione breve ma pertinente.
Le ragioni del nucleare sono state recentemente presentate da Oliver Stone nel documentario “Nuclear Now”. Stone sostiene che il fossile ha causato e causa, oltre all’attuale crisi climatica, milioni di morti l’anno per inquinamento, e che al confronto i danni e i pericoli del nucleare appaiono irrisori: e questo è assolutamente vero, dati alla mano, nonostante i gravi incidenti di Chernobyl e Fukushima. È purtroppo anche vero che le scorie nucleari sono in quantità di gran lunga inferiore rispetto alle scorie prodotte dai combustibili fossili (gas serra pari a 4,5 miliardi di tonnellate/anno di CO2, oltre al particolato ed agli altri inquinanti chimici). Ma queste ultime non si possono stoccare, come si fa con le scorie nucleari, né rendere innocue in alcun modo.
Oggi, inoltre, la crisi ambientale e climatica è così grave da mettere in pericolo l’umanità intera. Di fronte a questo anche il nucleare recupera una sua ragion d’essere, pur con le necessarie cautele e, ovviamente, non come alternativa alle energie rinnovabili, ma a rinforzo di queste. Duole dirlo, ma forse l’energia nucleare è meglio dell’aggravarsi della crisi climatica con le sue devastanti conseguenze, e dei 6,7 milioni di morti l’anno causati dall’inquinamento atmosferico da combustibili fossili.
Con le premesse che abbiamo detto, la COP 28 ha molto stentato a raggiungere un accordo. I più strenui difensori di una linea più coerente verso la progressiva eliminazione del fossile sono stati i Paesi che rischiano di scomparire a causa del riscaldamento globale, sommersi dall’innalzamento dei mari, come Maldive, Samoa e Figi. A proposito di mari, ma la nostra delegazione lo sapeva che l’Italia rischia di perdere non solo Venezia, ma anche tutte le spiagge?
Alla fine, l’OPEC ed al-Jaber sono riusciti a spuntarla, e dal documento finale è stato eliminato il riferimento al “phase out”, cioè all’abbandono del fossile, a favore di due concetti simili, ma più blandi: “transition away” (transizione anziché abbandono) e “global stocktake”, cioè bilancio globale delle fonti energetiche.
Sembrano finezze semantiche, ma la scelta adottata sottolinea più la prudenza e la lentezza che il coraggio e la rapidità nella transizione energetica. Se no, perché tanta opposizione a due piccole parole? L’importante era evitare che le fonti fossili fossero esplicitamente bandite, pur con l’inevitabile progressività, e che la transizione avesse tempi certi e vincolanti, per quanto gli accordi internazionali possono vincolare le Parti.
Le conclusioni ufficiali sono come sempre trionfalistiche ma, a leggere nella sua interezza il comunicato finale, si scopre che lo sforzo finanziario a livello mondiale è “di gran lunga inferiore” alle necessità reali, confrontando le “promesse” (12,8 miliardi), che non è detto si realizzino tutte, con le reali esigenze, che assommano a migliaia di miliardi.
Simon Stiell, Segretario esecutivo del Climate Change dell’ONU, ha concluso con un appello: “il mio messaggio finale è per le persone comuni che da tutto il mondo alzano la loro voce. Ognuno di voi fa la vera differenza. Nei cruciali anni a venire le vostre voci e la vostra determinazione saranno più importanti che mai. Vi esorto a non cedere mai. Siamo ancora in questa gara. Saremo con voi in ogni singolo passo del cammino”.
Retorica? o consapevolezza che tocca a tutti noi “galline” di agire, perché delle volpi non ci si può del tutto fidare?