L’acqua, Cenerentola delle utilities
Cosa si può dire sull’acqua potabile in Italia? A prescindere dalle sue caratteristiche bio-fisio-chimiche e dalla sua sicurezza, scientificamente garantita, si può avere un quadro definito della dimensione della rete idrica nazionale? della misura esatta della quantità immessa nel sistema di distribuzione o dell’effettivo stato delle infrastrutture che garantiscono a questa risorsa primaria di sgorgare potabile dai rubinetti delle nostre abitazioni?
La risposta, stando al confronto che su questo tema si è svolto nel corso della tavola rotonda “Il sistema idrico integrato” all’interno di Aquitaly (la conferenza internazionale sull’acqua organizzata il 19 e 20 febbraio dalla Fiera di Roma e promossa da Regione Lazio, Camera di Commercio di Roma, con il patrocinio di Fao, Unesco, Ministero delle Politiche Agricole e Ministero dell’Ambiente) è indiscutibilmente solo una: no.
Una desolante constatazione quella cui sono giunti i principali gestori del sistema acqua in Italia (Andrea Bossola per Acea, Claudio Anzalone per Hera, Gianfredi Mazzolani per Acquedotto Pugliese, Franca Palumbo per Iren, Armando Quazzo per Smat, Giuseppe Mininni per l’Istituto di ricerca della salute delle acque del CNR ed Enrico Rolle per il Ministero dell’Ambiente) che hanno cercato di definire il quadro generale della situazione.
La fotografia scattata non è fra le più rassicuranti. Il nostro sistema è a dir poco obsoleto: se si prescinde da quanto fatto in epoca romana, su alcune delle “nuove” strutture non si è messa mano addirittura dal dopoguerra, con grandissime dispersioni che ovviamente aumentano nel tempo a causa del deterioramento delle condutture. Inoltre le rilevazioni sulla portata del flusso si basano molto spesso su stime approssimative, mentre la troppo frequente mancanza di cartografie impedisce di conoscere dove è precisamente allocata la rete idrica.
Tutti elementi che contribuiscono a determinare un’inefficienza molto ampia del sistema, cosa di cui si è ben accorta l’Unione europea che continua a comminare multe all’Italia per infrazione in questo settore, proprio per il non adeguamento a quelli che vengono considerati corretti parametri standard per i cittadini dei Paesi aderenti.
Il piano di investimenti pubblici per sanare alcune situazioni è stato già attivato, come ricordato da Rolle: un miliardo e 700 mila euro da parte dello Stato per progetti di infrastrutture nel Mezzogiorno, proprio per compensare alcune situazioni particolarmente difficili (in alcune zone del Sud non sono presenti gli impianti di depurazione secondaria ed alcuni agglomerati non sono ancora collegati alla rete fognaria pubblica); o a livello regionale i 15 milioni stanziati, ad esempio, dalla Regione Lazio per risolvere la potabilizzazione dell’acqua nel viterbese.
Cifre importanti, ma che secondo Andrea Bossola, direttore del sistema idrico di Acea, non sono sufficienti ad adeguare il comparto che necessiterebbe invece di investimenti decisamente più importanti, pari ad almeno 5 miliardi l’anno. Soldi necessari a garantire l’ottimizzazione del sistema, ma che senza un intervento dei capitali privati – con i conseguenti costi aggiuntivi in bolletta per la compensazione del loro investimento – rendono, sottolinea Bossola, di difficile realizzazione questo obiettivo.
Nel frattempo il sistema idrico integrato rimane un sogno, continuando ad essere fortemente frammentato. Dagli 8mila gestori di pochi anni fa si è passati a circa 3mila: un numero molto lontano dai propositi di chi aveva ristrutturato la normativa di settore, prima con la legge Galli e poi con il decreto Ronchi, e che mirava a restringere gli operatori a meno di cento.
Proprio le dimensioni degli operatori, a volte veramente esigue, sembrano lasciare pochissimo spazio all’introduzione di quelle innovazioni che l’odierna tecnologia mette a disposizione per migliorare le condizioni di efficienza degli impianti; un miglioramento che potrebbe avvenire anche nella gestione della depurazione degli scarichi reflui. Pensare poi che tali operatori possano affrontare un programma di ricerca “in house”, in questi casi pare addirittura fuori luogo.
Ma non è tutto. Quello che lascia veramente perplessi, in un’epoca di informatizzazione “matura”, è la assoluta mancanza di cifre ufficiali sulla dimensione effettiva della rete in Italia (e della sua allocazione). Lo stesso Istat risulta impossibilitato a rilasciare rapporti ufficiali poiché molti di quei 3mila gestori oggi operanti nel settore non hanno mai comunicato dati in merito. Ed ecco che ci si azzarda solo a fare qualche stima. Ad esempio, facendo riferimento a dati desunti dai piani di ambito territoriale, Gianfredi Mazzolani, amministratore dell’Acquedotto Pugliese, considera il nostro Paese dotato di una rete di oltre 400mila chilometri. Una dimensione che di fatto viene equiparata a quella dell’intera rete stradale ma che, almeno per il momento, non è stata oggetto di alcun censimento topografico su base nazionale.
Una cosa è invece e tragicamente più che certa e cioè che, nel suo tragitto dalla sorgente al rubinetto di casa, perdiamo oltre un terzo di questa preziosa risorsa. Nel 2012 le rilevazioni Istat indicavano che il tasso di dispersione delle acque in Italia aveva sfiorato il 38%.
In questo quadro di incertezza generale, l’unico dato veramente rassicurante è quello relativo alla qualità dell’acqua che beviamo. Come sottolineato da Massimo Ottaviani, direttore del reparto Igiene delle acque interne dell’Istituto Superiore di Sanità, ciò viene infatti garantito dagli infiniti controlli effettuati ogni giorno. Accertamenti eseguiti in maniera indipendente dalle Asl, dalle Arpa regionali e dagli stessi gestori a cui è affidato il servizio e che intensificano la loro frequenza in relazione alla portata degli acquedotti considerati e al bacino di utenze che raggiungono. Tanto per fare un esempio, nella sola città di Roma i campionamenti hanno una frequenza pari a 60 prelievi giornalieri. Una cifra che raggiunge i 4 milioni in tutta Italia e che analizza la qualità dell’acqua sia sotto il suo profilo organolettico, considerandone quindi le caratteristiche fisiche e chimiche, sia sotto quello microbiologico, per verificare la presenza o meno di elementi patogeni al suo interno.
Tirando le somme, vale la pena sottolineare l’osservazione fatta da Emanuela Cartoni, direttore dell’area idrico ambientale di Federutility, la quale ha evidenziato la necessità di un approccio maggiormente industriale per il settore. Se nel comparto acque in Italia ad oggi si investono in media circa 30 euro ad abitante, mentre ne servirebbero almeno 80, l’unico modo per raggiungere obiettivi degni di un Paese civile senza gravare di costi eccessivi la bolletta dell’utente – sostiene – è quello di ammodernarsi profondamente nella gestione, sfruttando la cooperazione fra operatori diversi, investendo nelle tecnologie e dotandosi di un’ottica manageriale in grado di utilizzare al meglio tutte le altre risorse a disposizione, compresi i fondi europei.