Dazi USA sull’agroalimentare, cresce l’allarme tra produttori e consumatori
Tariffe fino al 15% su vino e champagne francesi e rincari sui pomodori messicani mettono in difficoltà partner europei, famiglie americane e agricoltori del Midwest.
Le nuove tariffe imposte dagli Stati Uniti su diversi prodotti agroalimentari stanno generando reazioni a catena, con ripercussioni economiche e politiche che interessano tanto i partner commerciali quanto i consumatori e gli agricoltori americani.
In Europa la preoccupazione è forte, soprattutto in Francia. Le associazioni di categoria dei produttori di vino e champagne hanno lanciato un allarme: i dazi fino al 15% sui vini e sui distillati, decisi dall’amministrazione Trump, potrebbero causare un aumento dei prezzi di vendita sul mercato statunitense fino a 20 dollari a bottiglia. Una crescita che rischia di compromettere la competitività di uno dei settori simbolo del made in France e di tradursi in perdite stimate attorno al miliardo di euro l’anno. Bruxelles osserva con attenzione la situazione, mentre molte aziende valutano strategie difensive, tra cui la diversificazione verso mercati alternativi o la possibilità di avviare produzioni e imbottigliamenti direttamente negli Stati Uniti per aggirare le tariffe.
Le ricadute non risparmiano l’Italia, che vede colpiti alcuni dei comparti più forti del proprio export agroalimentare. I nuovi dazi interessano infatti prodotti simbolo del made in Italy come il Parmigiano Reggiano, il Grana Padano, il Prosecco e l’olio extravergine d’oliva. Coldiretti ha parlato di “colpo durissimo” per il settore, stimando perdite superiori al mezzo miliardo di euro l’anno solo per i prodotti più esposti. Il rischio è quello di perdere quote di mercato conquistate in decenni, soprattutto in un Paese come gli Stati Uniti che rappresenta uno sbocco privilegiato per l’agroalimentare italiano. Le associazioni di categoria sottolineano che a pagare il prezzo più alto sarebbero i piccoli e medi produttori, con conseguenze anche sull’occupazione e sull’indotto. Nei giorni scorsi, i consorzi di tutela del Parmigiano e del Prosecco hanno chiesto un intervento immediato del governo e di Bruxelles per scongiurare un’escalation, avvertendo che il rischio è lasciare campo libero alle imitazioni e al cosiddetto “Italian sounding”.
La preoccupazione, però, non riguarda solo il comparto agricolo. Le associazioni di imprenditori e i principali istituti finanziari italiani hanno messo in guardia sugli effetti indiretti che la nuova ondata di protezionismo americano potrebbe produrre sul sistema economico nazionale. Confindustria ha parlato di “scenario rischioso per l’export italiano nel suo complesso”, sottolineando come la guerra commerciale inneschi incertezza sui mercati e possa tradursi in un rallentamento degli investimenti. Anche la Banca d’Italia ha evidenziato nei suoi rapporti che tensioni di questo tipo finiscono per pesare sulla fiducia delle imprese e sui flussi commerciali, con il pericolo di riflessi negativi sulla crescita del PIL. Alcuni osservatori hanno inoltre ricordato che l’Italia, essendo una delle economie europee più dipendenti dall’export manifatturiero, rischia di essere particolarmente vulnerabile a un inasprimento delle barriere tariffarie.
Sul fronte interno agli Stati Uniti, l’impatto riguarda direttamente i consumatori. Il dazio del 17% applicato sui pomodori provenienti dal Messico, che ha di fatto annullato l’accordo di sospensione del 2019, rischia di determinare rincari fino al 40% su pomodori e derivati, con un incremento medio stimato tra il 7 e l’11% sugli scaffali della grande distribuzione. Un effetto che si aggiunge a un contesto già segnato da pressioni inflazionistiche e che potrebbe incidere in maniera significativa sul potere d’acquisto delle famiglie.
Gli agricoltori americani, in particolare nel Midwest, sono a loro volta penalizzati. Oltre al calo della domanda estera, in particolare dalla Cina, dovuto alle tariffe di ritorsione, si sommano le difficoltà legate agli eventi climatici estremi. Nonostante i programmi di sostegno federali, stimati in circa 60 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, molte aziende agricole segnalano margini sempre più ridotti e una crescente difficoltà a mantenere la competitività sui mercati internazionali.
La questione è al centro anche del dibattito politico e istituzionale. Al Congresso è stata presentata una proposta bipartisan, il “Trade Review Act”, che mira a limitare i poteri dell’esecutivo imponendo l’approvazione parlamentare per il mantenimento di nuovi dazi oltre i 60 giorni. Parallelamente, una recente sentenza federale nel caso V.O.S. Selections v. United States ha stabilito che l’amministrazione non dispone dell’autorità legale per imporre determinate tariffe sulla base della normativa d’emergenza (IEEPA), sospendendone l’applicazione in attesa del giudizio d’appello.
Con le elezioni di metà mandato del 2026 all’orizzonte, il tema delle tariffe potrebbe diventare uno degli snodi della campagna elettorale. Da un lato, l’amministrazione rivendica la necessità di proteggere la produzione nazionale e di riequilibrare la bilancia commerciale; dall’altro, crescono le preoccupazioni per i possibili contraccolpi su consumatori, agricoltori e partner storici degli Stati Uniti. Le prossime settimane saranno decisive per capire se prevarrà la linea della fermezza protezionista o se si aprirà uno spazio di mediazione politica e commerciale.