Il mirto, pepe “povero” degli antichi Romani
“Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggieri, su i freschi pensieri che l’anima schiude novella, su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione” – (La Pioggia nel Pineto. Gabriele D’Annunzio)
Basterebbero questi versi declamati a calice alzato come presentazione del piatto proposto per giustificare la vostra fatica e suscitare l’apprezzamento dei vostri commensali.
Le bacche di mirto – che tutti conoscono per il liquore dolce che accompagna solitamente il fine pasto, caratteristico soprattutto della Sardegna – sono un prodotto tipico della macchia mediterranea e, una volta essiccate, venivano usate già dai Romani come ingrediente sostitutivo del più raro e costoso pepe.
La pianta era dedicata a Venere, la dea dell’amore: leggere corone intrecciate con le foglie di questo arbusto cingevano solitamente il capo delle spose a protezione celeste del loro imminente connubio.