Pesticidi nel piatto: l’impatto sugli alimenti che consumiamo
Uno studio dimostra quanto sia ancora oggi molto diffuso l’uso dei fitofarmaci in agricoltura, con danni a salute e ambiente. Anche se non mancano segnali incoraggianti
“Lasciate che il cibo sia la vostra medicina e la vostra medicina sia il cibo” raccomandava il medico greco Ippocrate oltre duemila anni fa.
Una raccomandazione che faremmo bene a ricordare: la nuova edizione del dossier “Stop pesticidi nel piatto”, a cura di Legambiente e Alce Nero, dimostra infatti che spesso ciò che oggi finisce sulle nostre tavole non è nutrimento, ma scoria.
I numeri non lasciano spazio a dubbi: su 5.233 campioni di alimenti analizzati, quasi la metà (il 41,3%) presenta tracce di uno (14,99%) o più (26,33%) residui di fitofarmaci; tra gli alimenti più colpiti c’è la frutta, con il 74,1% di campioni contaminati, seguita da peperoni (59,5%), cereali integrali (57,1%), verdura (34,4%) e prodotti trasformati (29,6%). Emblematico il caso dei peperoncini: un campione ha mostrato la presenza di ben 18 residui diversi, mentre in due campioni di pesche sono stati rilevati rispettivamente 13 e 8 residui. Tutte sostanze che quando combinate tra loro possono interagire, accumularsi e amplificare i loro effetti nocivi.
Oltre alle preoccupazioni per i potenziali danni sulla salute umana, il dossier riporta all’attenzione i rischi collegati all’uso dei fitofarmaci in agricoltura: prodotti (quelli autorizzati in Europa sono circa 450) che finiscono inevitabilmente nei terreni agricoli, compromettendo la loro fertilità e riducendo la biodiversità.
Senza contare i pericoli legati all’uso sempre più massiccio di pesticidi illegali. Nel 2023 ne sono state sequestrate in Europa 2.040 tonnellate; un’escalation impressionante rispetto al 2015, anno in cui fu condotta la prima operazione del genere e i sequestri di pesticidi messi al bando per la loro pericolosità furono pari a 190 tonnellate.
Tra le cause di questo preoccupante incremento c’è la trasformazione del modello di agricoltura tradizionale, sostenibile per l’ambiente e focalizzato sulla qualità, in un modello dominato dall’uso intensivo della chimica e dalla ricerca di rese elevate, sviluppato per rispondere alle esigenze di una popolazione mondiale in continua espansione.
Negli ultimi anni, inoltre, l’agricoltura ha dovuto fare i conti con fenomeni climatici estremi, come siccità, alluvioni, grandinate, alternarsi di temperature miti anche in inverno e gelate improvvise: eventi che hanno favorito la proliferazione di micopatologie e sterminato api e insetti impollinatori, fondamentali per la salute delle piante e la biodiversità, costringendo gli agricoltori a un uso massiccio di anticrittogamici per salvare i raccolti.
Per fortuna nel dossier non mancano segnali incoraggianti: l’olio extravergine di oliva, ad esempio, si distingue per le altissime percentuali di campioni privi di residui, a conferma della sua eccellenza e del rigore produttivo che caratterizza questa filiera.
Anche il vino mostra un trend in positivo: il 53,1% dei campioni analizzati è risultato privo di residui, segnando un miglioramento rispetto al 48,8% dell’anno precedente.
«Il quadro che emerge dai dati è preoccupante – ha dichiaratoil presidente di Legambiente Stefano Ciafani, – ma allo stesso tempo rappresenta un’opportunità per riconsiderare il nostro modello agricolo».
Ridurre l’uso di fitofarmaci è necessario per salvaguardare l’ambiente, la salute umana e la qualità delle produzioni: buone pratiche come rotazioni, sovesci, consociazioni, abbinate all’uso di strumenti digitali e tecniche innovative, possono offrire un modello più sostenibile per il futuro del settore.
Un’altra soluzione viene dalla produzione agricola biologica (i residui in questo tipo di prodotti sono pochissimi e dovuti presumibilmente alla contaminazione accidentale), di cui l’Italia continua a essere un leader europeo sia per le superfici coltivate sia per il numero di operatori.
Nel nostro Paese, infatti, sono 2,5 milioni gli ettari destinati al biologico: un’estensione pari al 19,8% della Superficie Agricola Utilizzata (SAU) e ben al di sopra della media europea del 12,3%. Ma anche un’opzione intelligente e sostenibile, che sta attirando l’interesse di un numero crescente di giovani agricoltori. Secondo il Rapporto Giovani 2024 di Coldiretti, infatti, il 14,6% degli agricoltori under 40 è attivo in questo settore, rispetto al 5,9% tra gli over 40, con un totale di 94.441 operatori, cifra in crescita rispetto al 2022.
A livello europeo, la strategia Farm to Fork e la strategia la Biodiversità ci indicano chiaramente la direzione, promuovendo la sostenibilità ambientale del sistema agroalimentare.
Tra i target al 2030 ci sono la riduzione del 50% dei pesticidi, del 20% dei fertilizzanti, del 50% degli antibiotici utilizzati nell’allevamento, l’istituzione di aree per la biodiversità e i corridoi ecologici su almeno il 10% dei terreni agricoli e il raggiungimento del 25% di superficie agricola biologica in tutta Europa. Entrambe le strategie sono al cuore del Green Deal europeo, con l’obiettivo di rendere i sistemi alimentari più giusti, sani e rispettosi dell’ambiente.
In questa direzione vanno anche altri strumenti, come l’introduzione degli ecoschemi per la protezione degli impollinatori, fondamentali per aumentare ulteriormente la Superficie Agricola Utilizzata (SAU), e gli incentivi alla nascita di biodistretti.
Questi ultimi, in particolare, sono sistemi che coinvolgono non solo il settore agricolo, ma anche le comunità locali, le amministrazioni pubbliche, le imprese e i consumatori, con l’obiettivo di promuovere una gestione sostenibile del territorio e delle risorse naturali.
Un aspetto cruciale dei biodistretti è la promozione di una economia basata sul riciclo, l’efficienza energetica e la riduzione delle emissioni di carbonio, favorendo un modello agricolo che non solo protegge l’ambiente, ma stimola anche nuove opportunità di sviluppo sostenibile e occupazionale.
Oltre alla tutela della biodiversità delle risorse naturali, infatti, i biodistretti favoriscono il recupero delle tradizioni agricole locali, valorizzano i prodotti agricoli biologici e la creazione di una rete di filiere corte, stimolano la ricerca di soluzioni innovative per la gestione sostenibile dei terreni, delle acque e della biodiversità, e contribuiscono attivamente alla formazione di una comunità più consapevole e preparata riguardo alle pratiche di consumo responsabile.
Gli impatti positivi sull’economia locale non tardano ad arrivare: i produttori locali riescono, infatti, ad ottenere una maggiore remunerazione per i loro prodotti.
Per ridurre gradualmente l’impiego di sostanze chimiche dannose per l’ambiente e la salute umana, e promuovere pratiche più sostenibili è tuttavia necessario fare di più: occorre prima di tutto supportare le piccole e medie imprese agricole, garantendo loro un accesso equo alle risorse.
Non meno urgente è poi l’approvazione di una legge contro le agromafie, che costituiscono una minaccia diretta alla legalità e alla sicurezza delle filiere agroalimentari, alimentando fenomeni come l’utilizzo di pesticidi illegali, il caporalato e i reati ambientali.
Infine, la promozione della dieta mediterranea, riconosciuta nel 2010 dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale dell’umanità.
In Italia le regioni che si attengono più fedelmente al modello alimentare mediterraneo sono il centro-nord, in particolare Emilia-Romagna e Lazio, insieme alle isole Sicilia e Sardegna, mentre le regioni meridionali e del nord-est sono quelle che meno aderiscono alle sue regole.
Eppure adottare la dieta mediterranea è molto più che adottare un semplice regime alimentare: è un vero e proprio stile di vita che promuove salute, benessere, movimento, convivialità e sostenibilità, aspetti altrettanto importanti rispetto al consumo abbondante di frutta, verdura e cereali, ma che troppo spesso vengono ancora sottovalutati.