lunedì, Aprile 29, 2024
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Nei campi, senza passato né futuro, mentre si perde la vita e la speranza

In quest’estate assolata, dove spesso l’Italia stenta a riconoscersi in molte delle affermazioni che circolano in rete, nelle aule parlamentari e anche fra gli scranni più alti del potere,  un brivido di reazione ad una tragedia che ti obbliga a confrontarti con la realtà ha sicuramente percorso la schiena di molti.

Ieri in località Ripalta, sulla strada statale 16,  in provincia di Foggia il verificarsi di un gravissimo incidente  ha visto schiantarsi un pulmino carico di braccianti africani contro un Tir. Il bilancio è  terribile:  12 morti e 3 feriti, che si  aggiungono a quanto accaduto sabato 4 luglio – sempre nella stessa area – quando un altro scontro su queste strade aveva decretato, con dinamiche simili,  la morte di altri 4 lavoratori stranieri. A fronte della  tragedia, gli immediati  messaggi di condoglianze istituzionali da parte di tutte le parti politiche hanno offerto però istantanea evidenza  – nella convenzionalità obbligata del fraseggio –  di una stonatura stridente che pur involontariamente si inseriva in modo chiaro nella disgrazia appena compiutasi.  “Il cordoglio va a tutte le vittime, i feriti .. i familiari” si poteva leggere ed ascoltare in tutti i messaggi che rimbalzavano fra i Social e i notiziari televisivi e radiofonici.  Ebbene, in queste baraccopoli sconfinate,  che sorgono ai limiti dei campi che diventano presto ghetti per queste persone quasi invisibili al resto del mondo, le famiglie non ci sono. Le mogli e i figli che rappresentano  il presente e il futuro di questi uomini, al pari dei padri e delle madri, espressione di un loro vicino passato,  non sono quasi mai accanto a queste persone. Ed accade così che ieri, come sabato,  sul luogo della tragedia passino ore perché le forze dell’ordine possano procedere ad una loro identificazione. Nessuno che accorre sul posto, nessuno che si precipiti in ospedale. Nessuno che racconti ai cronisti le storie, quelle di vita al di là del lavoro,  di queste vittime.  Su loro possiamo solo immaginare, ma intuiamo con certezza che sono uomini la cui speranza per un futuro e un passato migliore  li ha spinti verso il nostro Paese, confidando di poterli costruire con un lavoro.

Raccogliere pomodori per 2 euro l’ora è un lavoro? Purtroppo sì,  potrebbe raccontarci qualche centenario che conserva vivo il ricordo delle condizioni salariali dei nostri braccianti prima che la questione agricola venisse affrontata e risolta – non senza scontri feroci – dai governi che si sono avvicendati dall’inizio della nostra Repubblica.  Evitare di sfruttare economicamente  i lavoratori, proteggerli in sicurezza nell’esercizio della loro attività, assicurare la loro incolumità fisica e garantirgli protezione in caso di malattia, organizzare il loro futuro attraverso fondi pensionistici sono tutti diritti conquistati in progressione, coinvolgendo intere generazioni in durissime contestazioni perché potessero finalmente esplicare le loro potenzialità.

Ma le battaglie, soprattutto quelle delle libertà per tutti, si combattono insieme. Gli uomini che picchettavano le fabbriche o sbarravano le strade  avevano mogli che gli portavano un pasto confezionato con amore per sostentarli nelle barricate; le donne che dopo aver raccolto gelsomini per 14 ore  tornavano a casa fiere e sconvolte per aver  avuto il coraggio di sottrarsi alle angherie dei padroni, trovavano madri che in un abbraccio riuscivano a rinsaldare  gli argini del loro coraggio.

Gli uomini morti sulle strade del foggiano,  i loro compagni che – sopravvissuti fino al prossimo incidente – proveranno a protestare, non hanno niente di tutto questo e i grandi predatori dei diritti lo sanno bene.  Quando tutte le libertà vengono meno,  per puro spirito di sopravvivenza, in questo sistema c’è purtroppo anche la corsa a diventare l’aguzzino che consente all’impianto deviato di funzionare. E’ vista come unica possibilità di sottrarsi al terribile destino di vittima: il problema del caporalato in questo settore è solo la punta dell’iceberg di quanto sta accadendo alla nostra agricoltura ed insieme al mondo del lavoro.

Quello che avviene in quei campi (e non solo)  è un vero attentato alla nostra Costituzione che all’art.1 esordisce con tutta la forza di un messaggio che al tempo appariva rivoluzionario affermando che la Repubblica italiana è fondata sul lavoro.  E’ il nostro sistema democratico che si alimenta e trae forza da questo principio.  E’ nel rispetto delle persone che lavorano che lo Stato che abbiamo scelto di costruire sulle macerie di una guerra devastante trova il suo pilastro fondante. Permettere che questo venga toccato sarebbe un disastro per tutti.

E se pur onesto, a differenza dei nostri avi centenari, possiamo affermare con certezza che raccogliere pomodori per 2 euro l’ora in Italia non è lavoro. E’ sfruttamento e come tale noi lo vietiamo e puniamo severamente i responsabili  che permettono che ciò avvenga (non solo i caporali).

Se queste persone sfruttate non hanno una famiglia che li sostenga e li aiuti nella tutela dei loro diritti,  non possiamo sottrarci come uomini, come italiani,  nel difenderli e rappresentarli per salvaguardare e dare speranza al loro – ed insieme al nostro – passato e futuro.

Cristiana Persia

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