FAO. Un ecosistema naturale per produrre di più con meno
L’approccio ‘Save and Grow’ fa riferimento a una serie di tecniche che cercano di sfruttare al meglio i processi biologici naturali e gli ecosistemi per raggiungere questo importante obiettivo
Circa 3,3 miliardi di tonnellate di mais, riso e grano: questa, si stima, la domanda annuale mondiale entro il 2050, in pratica 800 milioni di tonnellate più del raccolto del 2014 per garantire alimenti che contribuiscono al 42,5% del fabbisogno calorico umano e al 37% di quello proteico. Sono le previsioni contenute nel nuovo libro della Fao, ‘Save and Grow’ – secondo quanto riporta l’agenzia ADN Kronos – che esamina come questi importanti cereali possano essere coltivati in modi che rispettino e perfino traggano vantaggio dagli ecosistemi naturali.
Basandosi su ‘case studies’ provenienti da tutto il Pianeta, la nuova pubblicazione illustra come l’approccio all’agricoltura ‘Save and Grow’ sostenuto dalla Fao, già impiegato con successo per la produzione di cereali di base, apra la strada verso un futuro più sostenibile per l’agricoltura, e offra una guida su come raggiungere la nuova agenda di sviluppo sostenibile 2030. “Gli impegni internazionali per sradicare la povertà e far fronte al cambiamento climatico richiedono il passaggio verso un’agricoltura più sostenibile e inclusiva, in grado di produrre rendimenti più elevati nel lungo periodo”, scrive il direttore generale della Fao José Graziano da Silva nella prefazione.
I due recenti accordi punto di riferimento a livello mondiale, gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Oss) – che richiedono di sradicare la fame e stabilire ecosistemi terrestri su solide basi entro il 2030 – e l’accordo sui cambiamenti climatici di Parigi (Cop21), sottolineano la necessità di innovazione dei sistemi alimentari. Se è vero che i raccolti cerealicoli possono oggi raggiungere livelli record, la loro base produttiva è tuttavia sempre più precaria per i segnali di esaurimento delle acque sotterranee, per l’inquinamento ambientale, per la perdita di biodiversità e per altre situazioni negative.
In un contesto in cui la produzione alimentare dovrà crescere del 60% per riuscire a nutrire nel 2050 un’accresciuta popolazione mondiale, è ancora più urgente per i piccoli agricoltori – responsabili della maggior parte delle coltivazioni del mondo – essere messi in grado di farlo con maggiore efficienza e in modi che non aumentino ulteriormente il debito ecologico dell’umanità.
‘Save and Grow’ è un approccio ad ampio raggio a un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e sostenibile e mira a intensificare la produzione, tutelare e valorizzare le risorse naturali e ridurre il ricorso a input chimici, sfruttando i processi naturali degli ecosistemi della Terra, facendo aumentare al tempo stesso il reddito lordo degli agricoltori. Come tale, è un approccio che può contribuire notevolmente al raggiungimento dei nuovi obiettivi di sviluppo e promuovere la capacità di risposta al cambiamento climatico.
Le pratiche proposte da ‘Save and Grow’ vanno dalla coltivazione di alberi da ombra che perdono le foglie quando le colture di mais limitrofe hanno maggior bisogno di luce solare, come provato con successo in Malawi e in Zambia, a una lavorazione minima del terreno, facendo a meno di un’aratura profonda, per mantenere in modo permanente la copertura organica, lasciando i residui colturali come pacciame sulla superficie del terreno, un metodo applicato su vasta scala dai coltivatori di grano nella steppa del Kazakistan. Fino a pratiche sempre più innovative di utilizzo dei residui di coltivazione adottate dagli agricoltori negli altopiani dell’America Centrale e del Sudamerica.
“È giunto il momento di estendere pratiche che si sono dimostrate positive sui campi degli agricoltori in programmi nazionali più ambiziosi”, scrive José Graziano da Silva, nell’introduzione a ‘Save and Grow in Practice’. Un libro – sottolinea l’ADN Kronos – descritto come “un contributo importante per creare il mondo che vogliamo”. L’approccio ‘Save and Grow’ fa riferimento a una serie di tecniche che hanno tutte una caratteristica comune: cercare di sfruttare al meglio i processi biologici naturali e gli ecosistemi per “produrre di più con meno”.
Cinque elementi complementari formano il nucleo del paradigma di ‘Save and Grow’: l’agricoltura conservativa, che riduce al minimo la lavorazione del terreno e utilizza la pacciamatura e la rotazione delle colture; il miglioramento delle condizioni del terreno, per esempio coltivare piante fissatrici d’azoto in sostituzione di costosi fertilizzanti minerali; la selezione di colture con elevato potenziale di resa, capaci di resistere meglio agli stress biotici e climatici, e con maggiore qualità nutrizionale; un impiego efficiente delle risorse idriche; una gestione integrata dei parassiti, cercando laddove possibile di sfruttare nemici naturali per ridurre al minimo la necessità di pesticidi chimici.
Un esempio classico, ormai ampiamente adottato in Cina, è il sistema di riso-pesce, in base al quale i coltivatori hanno inondato le risaie con pesce, che può essere poi venduto o consumato, ma nel frattempo i pesci mangiano gli insetti, i funghi e le erbe infestanti che altrimenti danneggerebbero il raccolto, riducendo la necessità di ricorrere ai pesticidi. Una risaia di un ettaro può arrivare a produrre fino a 750 kg di pesce, continuando al tempo stesso la produzione di riso e facendo quadruplicare il reddito delle famiglie rurali. Tra gli altri vantaggi di questa tecnica la drastica diminuzione delle zanzare, vettori di gravi malattie.
La Fao stima che il 90% del riso del mondo è coltivato in habitat che sarebbero adatti alla coltivazione del riso insieme al pesce, ma al di fuori della Cina solo l’1% delle risaie dell’Asia utilizza questo sistema. Il governo indonesiano ha di recente lanciato un programma per cambiare il metodo di coltivazione di un milione d’ettari destinandoli a questa tecnica integrata.
L’approccio eco-sistemico su cui si basa ‘Save and Grow’ è esemplificato nel modo in cui alcuni piccoli agricoltori in Africa hanno affrontato il problema di una tarma indigena le cui larve divorano il mais a un tasso spaventoso. La consociazione della coltivazione del mais con quella della leguminosa Desmodium, in campi circondati dall’erba Napier – un tipo di foraggio per il bestiame – catalizza un interessante sistema di difesa. Il Desmodium produce sostanze chimiche che attraggono i predatori dei parassiti del mais, e che allo stesso tempo inviano un falso segnale di pericolo che spinge questi parassiti, pronti a deporre le uova, a cercare un habitat nell’erba Napier, che a sua volta emana una sostanza appiccicosa che intrappola le larve.
Oltre a questo il Desmodium – che fissa anche l’azoto nel terreno – sembra favorire la germinazione della striga, una pianta parassita infestante che devasta abitualmente le coltivazioni africane, impedendo la crescita delle radici delle erbacce. Anche se quest’approccio all’agricoltura comporta dedicare meno superficie alla coltivazione del mais rispetto alla monocoltura, è molto più produttivo, con il 75% dei contadini che l’hanno adottato nei terreni intorno al Lago Vittoria che riferiscono di rese nette almeno triplicate.
L’incremento della coltivazione dell’erba Napier si traduce anche in un incremento degli allevamenti bovini e della produzione di prodotti lattiero-caseari, con conseguente aumento dell’offerta di latte. Non solo. Anche la tecnologia avanzata ha un ruolo da svolgere nel migliorare il flusso dei servizi eco-sistemici. Sensori ottici portatili sono in grado di determinare, in tempo reale, di quanto fertilizzante azotato ha bisogno una pianta. Livellamenti del terreno di precisione, assistiti da strumentazione laser, hanno portato a incrementi di produttività in tutta l’India, riducendo l’impiego d’acqua di ben il 40% rispetto al livellamento del terreno con tradizionali tavole di legno.