Emilia Romagna: malgrado tutto, la Fruit Valley guarda avanti
Dal 2000 persi ben 30 mila ettari coltivati a frutta e dimezzato il valore economico della produzione in soli 10 anni.
Da tempo si levano voci preoccupate sul destino della Fruit Valley, intensa come la zona frutticola che ha il suo baricentro produttivo nelle province romagnole, all’origine della frutticoltura intensiva nazionale e della sua complessa filiera (campo, post raccolta, meccanizzazione, servizi e logistica). Negli ultimi decenni questo modello ha accusato difficoltà importanti come la perdita di indotto e della marginalità per i produttori, l’abbandono dell’attività produttiva, gli effetti estremi del clima e la concorrenza internazionale della Spagna che ha eroso grosse quote di mercato alla frutticoltura italiana.
Lo stato attuale della frutticoltura emiliano-romagnola è stato, dunque, analizzato dall’Accademia Nazionale di Agricoltura che, presso lo stabilimento della Coop. Agrintesa a Bagnacavallo, ha organizzato il convegno “Fruit valley, guardiamo avanti!” per delineare un quadro sintetico della attuale consistenza produttiva delle principali filiere frutticole e delle possibili soluzioni per il rafforzamento della produttività e sostenibilità economica-ambientale. L’Accademia ha così voluto coinvolgere gli attori della filiera, all’interno di un confronto costruttivo, per parlare delle possibili soluzioni, con proposte concrete e analisi della situazione per agevolare imprese, produttori e consumatori.
In 10 anni passati da 320 a 116 milioni di valore produttivo
Dal 2000 al 2020 la regione è stata colpita da un trend molto negativo, che ha visto la perdita complessiva di 30 mila ettari di colture legnose agrarie, di cui 10 mila ettari tra pesche nettarine e pere (rispettivamente -32% e -56%), un tempo il fiore all’occhiello della produzione emiliano-romagnola a livello mondiale. Nel contempo, kiwi, mele e albicocche hanno resistito meglio, seppure con quantitativi minori di terreni coltivati, senza però riuscire a coprire le superfici ormai perdute. Questa preoccupante decrescita ha portato, in soli 7 anni, al dimezzarsi del valore produttivo della frutticoltura emiliano romagnola, passata da 320 milioni nel 2017 a 116 milioni di oggi, a fronte di un consumo annuo di circa 15 miliardi di frutta in Italia. L’Emilia-Romagna ha così perso totalmente la leadership nella produzione internazionale di pere, ma al contempo ha sviluppato altre colture, come kiwi e susino le quali, nonostante le difficolta date dalla variabilità di prezzi e l’insicurezza del mercato internazionale, hanno ottenuto nuove quote di mercato. Nel complesso l’Italia non ha più il primato produttivo frutticolo ma l’Emilia-Romagna, pur nelle tante difficoltà, può giocare ancora un ruolo fondamentale per la frutticoltura, grazie allo spirito innovativo, alla capacità di fare ricerca, al dialogo fra le istituzioni.
Le prospettive future per ripartire: utilizzo delle TEA e aiuti all’imprenditoria
Tra i numerosi temi affrontati particolare rilevanza è stata data, da tutti i relatori, alla necessità di progredire in ricerca e innovazione. La ricerca varietale e le biotecnologie sono visti come strumenti fondamentali per portare soluzioni utili ai problemi dati dal nuovo clima (presenza della cimice asiatica, malattie delle piante, gelate, mancanza o abbondanza di acqua, temperature elevate) ed è necessario sviluppare maggiormente le TEA (Tecnologie di Evoluzione Assistita) dando la possibilità ai produttori di sperimentarle quanto prima in campo. Oltre a ciò, l’aiuto alle imprese è fondamentale, visti i costi molto alti della manodopera e la difficoltà a reperirla, anche a causa della differenza dei tempi di raccolta di ogni singola tipologia di frutta, che limitano le aziende italiane a differenza dei competitor europei. Necessaria, dunque, una sinergia tra politica e parte produttiva lavorando in modo congiunto.
Dal 2019 la produzione di pere è di 400 mila tonnellate in meno, bene susino e mele
“Negli ultimi anni i numeri della produzione e della superficie hanno subito molti cambiamenti – ha detto Elisa Macchi, Centro Servizi Ortofrutticoli CSO – e le pere, un tempo eccellenza mondiale, dal 2019 hanno registrato un vero disastro produttivo passando da 500 mila tonnellate annue, alle attuali 100 mila. Questo è successo perché, purtroppo, le pere sono i frutti che maggiormente subiscono gli stress del cambiamento climatico, soprattutto la tipologia abate, subendo malattie come la cimice asiatica che sono state devastanti, a fronte di una scarsa resa varietale. Tale situazione ha portato, dunque, a un drastico calo della superficie, dai 20 mila ettari del 2014 agli 11 mila del 2024, e alla riduzione del potenziale produttivo regionale: oggi l’Emilia-Romagna riesce al suo massimo a produrre non più di 300 mila tonnellate annue. La provincia che ha subito maggiormente questi problemi è stata Ferrara, che era la prima produttrice a livello europeo, con adesso solo 4 mila ettari coltivati a fronte degli 8 mila pre 2019. Infine, la ridotta offerta interna, vede una perdita di quote sui mercati esteri e l’export è sceso da una media di 150 mila tonnellate a poco oltre le 20 mila tonnellate nella campagna 2023/2024. Nel 2023/24 da Belgio e Olanda sono arrivate quasi 57 mila tonnellate (40% del totale) e dalla Spagna oltre 42 mila tonnellate (circa il 30% del totale). Valori mai visti prima”.
“In compenso le mele vanno bene – ha proseguito Elisa Macchi, Centro Servizi Ortofrutticoli CSO – sono 5 mila gli ettari coltivati con una tendenza alla crescita mediante una innovazione varietale molto buona, mentre il pesco è in calo con 7.400 ettari, la metà di 10 anni fa, con -6% di pesche e -2% di nettarine, ma il peso dell’Emilia-Romagna nella produzione di pesche italiane rimane buono (18% pesche e 36% nettarine). Infine, cresce il susino con l’Emilia-Romagna al primo posto in Italia, con 3.800 ettari e il 5% dell’offerta complessiva, essendo l’Italia produttrice per il 10% a livello europeo, dopo la Romania e a pari merito con Spagna e Francia”.
Un esempio positivo: il kiwi dell’Emilia-Romagna
“L’export di kiwi regionale, nel 2023, è stato di 251 milioni di euro, per un valore del 4% del fatturato nazionale e del 41% dell’export complessivo. In regione – ha spiegatoGuido Caselli, Camera di Commercio Emilia-Romagna – la superficie produttiva è di 4 mila ettari, quasi 900 di tipologia gialla, produciamo il 18% del kiwi italiano, e rispetto a 10 anni fa le superfici sono cresciute del 6%. In regione 5 grandi imprese realizzano il 60% della produzione regionale, mentre il resto è suddiviso in produttori più piccoli. Da sempre la Nuova Zelanda è il primo produttore al mondo, ma l’Italia è al secondo posto, col 16% del mercato mondiale. Il primo nostro importatore è la Cina, seguita da Germania e Spagna. Nonostante il problema dell’asfissia radicale la produzione regionale ha retto bene”.
Nuove esperienze di ricerca per ripartire: frutteto elettrico robotica in campo
“Il modello di frutticoltura moderna, nato a Massa Lombarda agli inizi del ‘900, è in crisi generalizzata da oltre vent’anni. Il semplice produrre frutta non basta più a garantire un reddito per il produttore e, di fronte a questa realtà, sono sorti diversi modelli di frutticoltura, dal biologico, al chilometro zero, alla produzione per vendite dirette online, fino alle consegne a domicilio in tutto il Paese. Tuttavia – ha analizzato il Prof. Luca Corelli Grappadelli, Università di Bologna – queste sono realtà che funzionano solo per superfici molto ridotte, avvantaggiate per collocazione geografica, facilità di logistica, ecc. Per l’impresa frutticola che sostiene la maggior parte della produzione primaria, queste soluzioni sono quasi tutte impraticabili. Nella ricerca di nuovi paradigmi produttivi, che proteggano il reddito del frutticoltore, potrebbe inserirsi il concetto di agrivoltaico, accoppiando questa forma di produzione di energia alle produzioni vegetali. Per molti motivi la frutticoltura si presta particolarmente a queste forme di coltivazione perché, modulando l’intercettazione luminosa delle chiome senza scendere a livelli di ombreggiamento eccessivi, si possono mantenere rese e qualità del prodotto, con forti risparmi idrici. Al tempo stesso, la disponibilità di elettricità a basso costo permetterebbe di adottare veicoli a trazione elettrica al posto dei tradizionali trattori, eliminando la fonte principale dell’impronta di carbonio del frutteto”.
“La raccolta robotizzata è ormai pronta a scendere in campo e sta facendo grandi passi – ha sottolineato Angelo Benedetti, Presidente UNITEC – che ha presentato gli sviluppi delle ultime ricerche di robotica e dei sistemi di visione alle operazioni in campo, come ad esempio la soluzione brevettata per la raccolta delicata in forma automatica di diverse tipologie di frutti, per aiutare i produttori a fronteggiare l’attuale carenza di manodopera a livello mondiale o il carro raccolta dotato di stazione di selezione automatica dei frutti, per l’effettuazione di raccolte differenziate, con la capacità di dare un riscontro in tempo reale ai raccoglitori, fornendo loro informazioni sulla qualità e il giusto grado di maturazione dei frutti che stanno raccogliendo. Sono questi solo alcuni esempi delle possibilità offerte al nostro settore dall’innovazione, vero driver per guardare avanti con fiducia”.
Agire sula fiscalità della manodopera e aiutare le aziende con scelte efficaci
“Prendiamo ad esempio chi ce l’ha fatta come la Spagna. Da quando ha iniziato a produrre in zone desertiche, con aziende dai 50 ai 1000 ettari di superfici ciascuna, ha dato la spinta decisiva. La frutticoltura del futuro è per le aziende medio grandi – ha concluso Renzo Piraccini, Presidente MACFRUT – occorrono dimensione adeguata, organizzazione, riforme sul costo del lavoro per essere competitivi, proprio come ha fatto la Spagna, dove le regioni autonome hanno potuto agire sulla fiscalità della manodopera. In Italia è diverso, ma le regioni a statuto speciale hanno, ad esempio, una tassazione sulla manodopera inferiore del 25% rispetto a regioni come l’Emilia-Romagna. Occorre tutelare le aziende perché senza di esse il sistema crolla, aiutarle col ricambio generazionale con scelte politiche chiare; so bene che accontentare tutti può sembrare la soluzione, ma non porta giovamento. L’UE deve capire che il settore agricolo è fondamentale e strategico, serve indirizzare le risorse con efficacia, affinché l’Europa sia autosufficiente dal punto di vista alimentare e non diventi un importatore netto”.