Embargo russo. E’ così penalizzante?
di Cristiana Persia
Essere costretti ad abbandonare un partner in genere provoca grande disagio, ma se il partner in questione è commerciale la sua mancanza può trasformarsi in un vero shock, indipendentemente dalle motivazioni che ci hanno costretto ad allontanarcene.
E’ la reazione che sembra essersi diffusa in molti ambienti del nostro Paese dopo le sanzioni economiche imposte alla Crimea dall’Unione europea a seguito del referendum che nel 2014 aveva proclamato la sua secessione dall’Ucraina e la conseguente annessione alla Federazione Russa. Misure ovviamente non gradite assolutamente da Mosca ( beneficiaria dei nuovi territori) che nel 2017, come contro ritorsione, hanno portato Putin a decretare l’embargo totale su tutti i prodotti di origine comunitaria.
Un piccolo terremoto su molti segmenti delle bilance commerciali di tutti i Paesi dell’Ue, che – considerati i proclami odierni di una frangia della nostra politica per la recessione unilaterale delle decisioni di Bruxelles contro Mosca – occorrerebbe analizzare con un po’ più di attenzione.
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Innanzitutto occorre ricordare che il nostro Paese in alcuni segmenti produttivi è fortemente orientato all’export. Va da sé che – indipendentemente da tutto – la chiusura completa di un mercato estero può determinare molti scompensi.
E vediamo quindi cosa è successo nel nostro Paese, prendendo ad esempio l’intero settore agroalimentare :prodotti dell’agricoltura, dell’itticoltura della silvicoltura, quelli alimentari e le bevande.
Secondo i dati diffusi dalla Farnesina, nel 2015, per questo segmento abbiamo esportato verso la Federazione Russa merci per un valore complessivo di 382 milioni di euro e ne abbiamo importati per 174, mentre nel 2016 (sempre in questo settore) l’export si attestava a 421 milioni di euro e l’import scendeva leggermente: 154 milioni di euro. Un saldo quindi positivo, ma che, nei volumi complessivi, va raffrontato a quanto riusciamo a fare ad esempio con gli altri Partner europei.
Se per il settore agroalimentare volgiamo ad esempio lo sguardo alla Germania, ci accorgiamo che verso questa nazione nel 2015 l’Italia per l’intero settore agroalimentare ha collocato merci pari a 6 miliardi e 482 milioni di euro, a fronte di un import per gli stessi settori di 5 miliardi e 568 milioni di euro. Nei confronti della Francia il nostro export – sempre per il 2015 – ha superato i 4 miliardi di euro , mentre abbiamo importato –complice probabilmente la grande distribuzione prevalentemente di proprietà d’oltralpe – merci per 5 miliardi e 441 milioni di euro.
Se poi analizziamo invece gli scenari futuri che nel nostro settore agroalimentare potrebbe offrirci invece l’effetto Brexit – con eventuali imposizioni di dazi o limitazioni – le cose divengono decisamente più allarmanti.
Con riferimento al 2015, il Paese della Union Jack importava dall’Italia prodotti genericamente legati al cibo – semplici o trasformati – pari a 3 miliardi e 218 milioni di euro, mentre da loro il nostro import si attestava ad appena 701 milioni.
Tornando alla barriera imposta da Mosca, i commenti raccolti a vario titolo dalle principali Confederazioni legate all’agricoltura nostrana hanno sottolineato che le conseguenze negative di questo “fermo” obbligato siano principalmente legate all’azione di Nazioni come la Polonia, la Romania o la Spagna che, tradizionalmente orientate a quei mercati, riversano ora in massa sui mercati comunitari l’invenduto destinato alla Federazione Russa.
Una situazione che innesca una vera guerra al ribasso dei prezzi in cui i prodotti dell’agroalimentare italiano solitamente escono decisamente penalizzati.
Quindi al di là del clamore mediatico che può suscitare la dichiarazione di uno stop da parte dell’Italia alle sanzioni in atto (che dovrebbe decretare lo sblocco dell’embargo dalla Russia e la conseguente normalizzazione dei rapporti commerciali tra i nostri due Paesi), l’adesione concreta a questa azione unilaterale non sembrerebbe in realtà garantire i vantaggi così ampiamente enunciati. Più probabile la possibilità che, nel migliore dei casi, si possano raggiungere i risultati ante crisi (per intendersi quelli del 2015 e nel 2016) quando complessivamente – insieme al settore agroalimentare – esportavamo verso la Federazione merci per un valore di circa 7 miliardi di euro, ma ne importavamo, di contro, per oltre 14 miliardi.
Senza contare il grande colpo all’unitarietà della politica dell’Ue che è anche, non dimentichiamolo, il nostro principale mercato economico di riferimento.