Aree interne: patrimonio da rigenerare, non territori da abbandonare
Inviata a Governo e Parlamento una “lettera aperta” sottoscritta da cardinali, arcivescovi, vescovi e abati
Le aree interne italiane custodiscono un patrimonio unico, che rappresenta una risorsa strategica per il futuro del Paese. Nel 2022, erano attive in questi territori 1.740 strutture museali, gallerie, aree archeologiche e monumenti, pari al 39,4% delle strutture culturali italiane: un dato che dimostra come borghi e comunità spesso considerate marginali siano, in realtà, depositarie di una ricchezza culturale e artistica straordinaria.
Eppure, queste aree sono oggi al centro di un passaggio cruciale. Spopolamento, declino demografico e carenza di servizi alimentano una sensazione diffusa di abbandono. Di fronte a questo scenario, la Conferenza Episcopale Italiana ha lanciato un appello forte e inequivocabile: il Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne non può sancire la “fine assistita” di intere comunità. Nella lettera aperta, firmata da 141 tra Cardinali, Arcivescovi, Vescovi e Abati, viene contestata la visione che descrive alcune aree come destinate a un “spopolamento irreversibile”, riducendole a territori da accompagnare verso l’estinzione anziché rigenerare.
Rigenerazione, non rassegnazione
Le aree interne non rappresentano soltanto una nuova “questione meridionale”: sono una sfida nazionale che riguarda il futuro dell’intero Paese. Il loro spopolamento rischia di spegnere comunità, tradizioni, economie e speranze.
La lettera aperta al Governo e al Parlamento, sottoscritta da cardinali, arcivescovi e vescovi di questi territori, è un appello inequivocabile: non ci si può rassegnare a considerare intere comunità destinate a un “spopolamento irreversibile”. In queste terre c’è vita, ci sono energie, ci sono volti e storie che meritano di essere sostenuti.
La Chiesa, insieme alle comunità locali, mostra già segni di speranza: reti di prossimità, servizi innovativi, progetti di sviluppo che raccontano un’Italia che resiste e che vuole rinascere. Ora è la politica che deve raccogliere il testimone, accompagnando questo cammino con visione e coraggio.

I Vescovi chiedono un cambio di paradigma: non resa, ma rinascita. Una rinascita che passa da politiche attive e concrete:
- incentivi al controesodo e al ritorno dei giovani e degli emigrati, con agevolazioni fiscali mirate;
- diffusione del lavoro flessibile, dallo smart working al co-working;
- potenziamento dei servizi essenziali, dalla sanità territoriale alla banda larga;
- recupero dei borghi e valorizzazione del patrimonio culturale e paesaggistico come leva per un turismo sostenibile.
Turismo delle radici: una strada da sostenere
Tra le leve più promettenti emerge il turismo delle radici, che mira a coinvolgere i discendenti degli emigrati italiani non solo come visitatori, ma come potenziali investitori e nuovi abitanti dei territori d’origine. In questa direzione si colloca il progetto ItaliE, promosso da ASMEL e rivolto a migliaia di comuni italiani, che punta a far rinascere i borghi, sostenere le comunità locali e promuovere il territorio a livello internazionale.
Le contraddizioni del Governo
La lettera dei Vescovi mette in luce le ambiguità con cui il Governo affronta la sfida delle aree interne. Da un lato si riconosce il declino, dall’altro lo si accetta come destino inevitabile, invece di contrastarlo con politiche di rilancio. Gli obiettivi enunciati restano troppo spesso generici, privi di strumenti, scadenze e risorse adeguate.
Alle misure di sostegno per chi resta non si accompagna una vera strategia capace di attrarre chi potrebbe tornare. Una contraddizione che diventa ancora più evidente se si considera la recente Legge 74/2025 sulla cittadinanza iure sanguinis (DL Tajani 36/2025), che di fatto ostacola il Turismo delle Radici, celebrato appena un anno fa come risorsa strategica per il Paese dal Ministero degli Esteri.

L’appello per un cambio di rotta
La denuncia dei Vescovi, dunque, non è solo un richiamo etico, ma un vero e proprio appello politico e culturale: senza un cambio di rotta deciso, l’Italia rischia di perdere non soltanto popolazione, ma anche storia, identità e futuro.
Decidere che alcune aree interne debbano “morire” significa perdere non solo popolazione, ma anche storia, identità e bellezza.l contrario, esperienze come ItaliE dimostrano che un’altra strada è possibile: quella del ripopolamento possibile, della rigenerazione dal basso e della rinascita economica e sociale.
Le aree interne non sono un peso, ma un patrimonio strategico per l’Italia: possono tornare a vivere grazie a politiche coraggiose, al coinvolgimento delle comunità locali e al contributo degli italiani nel mondo, pronti a offrire nuova linfa ai borghi.