venerdì, Novembre 22, 2024
Agricoltura

Il pesce che mangiamo? Quasi tutto straniero

 

Per consumo in Italia siamo appena sopra la media europea,  ma come tutti gli altri Paesi ne importiamo tantissimo

Secondo le statistiche FAO, l’Europa è il continente con più alto consumo di prodotti ittici: 24,5 kg/pro capite.

A guidare la classifica dei Paesi in cui il pescato rappresenta uno dei pasti a cui si ricorre di più nel menù  il Portogallo, dove in media ogni abitante consuma 57 chili di questo alimento. Fanalino di coda – come prevedibile –  i Paesi dell’Europa continentale, con l’Ungheria ultima in classifica, con una dieta che include specie ittiche per appena 5,3 kg pro capite. Per quanto ci riguarda direttamente è stato stimato che in media ogni italiano  mangi  pesce per circa 25 kg l’anno, molto meno della Spagna (con oltre 42 kg), ma meglio della Grecia (19 kg).

Ma dove arriva tutto questo pesce che finisce sulle nostre tavole?

Secondo il rapporto sullo stato mondiale della Pesca elaborato dalla Fao, l’ammontare globale di pescato nel 2014 è stato di 93,4 milioni di tonnellate,  di cui 81,5 milioni provenienti dal lavoro dei pescherecci in mare e  11,9 milioni di tonnellate dalle acque interne. La Cina è il Paese più attivo in questo settore seguito dall’Indonesia, dagli Stati Uniti d’America e dalla Federazione Russa.

L’Unione europea, complessivamente,  importa fuori confini quasi il 65% della domanda.

La pesca effettuata dalle flotte pescherecce con la bandiera a dodici stelle contribuisce infatti solo per il 18,7% al fabbisogno dei consumatori, mentre l’acquacoltura per il 5,8%.

Le specie a livello mondiale  che seducono di più i consumatori mondiali all’acquisto risultano essere il tonno, il salmone ed il merluzzo.

Non sorprende quindi che fra i Paesi europei che dominano il mercato delle esportazioni ci sia la Norvegia, che ha in questo settore ha dato l’assalto ai mercati stranieri, sia comunitari che extra Ue,  portando a casa nel 2014 un vero bottino per la sua bilancia commerciale, con ricavi per quasi 11 miliardi di dollari.

Nonostante la nostra storica tradizione marinara, il nostro consumo interno è così fortemente marcato dalle importazioni. Siamo fra i Paesi che vi fanno maggiormente ricorso. Secondo le stime della FAO importiamo pesce per oltre  6 miliardi di dollari l’anno.

Ma non siamo gli unici a essere così sbilanciati.  Gli Stati Uniti,  la Cina , insieme a Giappone , Francia e Germania ci precedono in questa classifica, e più di noi comprano sui mercati stranieri quanto non riescono ad ottenere dalle rispettive flotte pescherecce.

A fronte di una domanda globale così importante , l’occasione è stata  afferrata al volo da molti Paesi che si affacciano sul mare  e che attraverso lo sviluppo della propria acquacoltura hanno potenziato la loro possibilità di cogliere le richieste di questo settore.

A livello mondiale nel 2015 (sono gli ultimi dati disponibili elaborati dalla FAO) , il principale Paese nel comparto dell’allevamento ittico è risultata la Cina con una produzione annua in acquacoltura di circa 61 milioni di tonnellate.  Pechino è seguita da altri 6 paesi asiatici (Indonesia, India, Vietnam, Filippine, Bangladesh, Corea del Sud) e da Europa (con in testa ovviamente la Norvegia), America (Ecuador) e Africa (Egitto).

Queste dieci nazioni contribuiscono di fatto per il 90% in volume, e per l’80% in valore, nella produzione mondiale d’acquacoltura,  registrando tutte un trend di crescita positivo rispetto al 2010.

E in Italia? Pur avendo una lunga esperienza nel settore – in particolare nell’allevamento dei molluschi  – il comparto è in crisi da molti anni, sofferente della concorrenza internazionale. Le difficoltà legate ad una filiera nazionale del prodotto ancora troppo lunga influenzano sfavorevolmente  il prezzo finale di quanto arriva sui mercati, spingendo spesso il consumatore a prediligere un prodotto straniero, in genere presente sui banchi di vendita a prezzi decisamente inferiori.

Cristiana Persia

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