Giocatori o giocati?
Alla vigilia dell’approvazione del Decreto dignità da parte del nuovo Governo Di Maio –Salvini, si accendono ancora una volta i riflettori sulle ludopatie e sulla necessità di predisporre misure efficaci per limitarne la diffusione
di Cristiana Persia
Il gioco è un meccanismo che si rivela fondamentale per il nostro apprendimento e con cui ci confrontiamo nel corso di tutta la nostra esistenza. È uno degli elementi dominanti della nostra infanzia: il mezzo attraverso cui, sin da piccolissimi, esercitiamo le nostre facoltà sensoriali e lo strumento con cui mentre cresciamo procediamo alle varie dinamiche di socializzazione, per facilitare il ruolo che da adulti assumeremo nei vari contesti di appartenenza.
Come può accadere quindi che questa dinamica, pur così centrale ed efficace per il nostro corretto sviluppo, possa trasformarsi invece in una dipendenza come quella del gioco d’azzardo, che annulla quotidianamente la stabilità mentale ed economica di milioni di persone nel mondo?
A cercare di offrire una spiegazione scientifica del fenomeno possono correre in aiuto i recenti studi elaborati dalle neuroscienze (l’insieme di discipline che analizza come si sviluppa ed interagisce il nostro sistema nervoso) nell’intento di spiegare come il cervello possa determinare, a seconda delle persone, uguali o diverse reazioni fisiche ed emotive alle medesime sollecitazioni che riceviamo.
Un interessante contributo in tal senso è stato presentato a Roma dal prof. Giovanni Serpelloni, uno dei più grandi esperti italiani di neuro dipendenze, nel corso di un incontro promosso dal Codacons proprio sul tema delle Ludopatie, che ha messo a confronto gli esperti del settore (terapeuti, accademici, operatori e rappresentanti delle istituzioni) per analizzare possibili strumenti di intervento per la prevenzione dell’insorgenza e diffusione di queste patologie, nonché per cercare di fare il punto sulle cure e i processi di corretta reintegrazione sociale delle persone coinvolte nel vortice della dipendenza dal gioco d’azzardo.
Secondo i recenti dati del Rapporto “Consumi d’azzardo 2017” pubblicato dal CNR, nel nostro Paese ad esempio lo scorso anno oltre 17 milioni di italiani avrebbero giocato d’azzardo almeno una volta: circa il 42,8% della popolazione contro i 10 milioni (il 27,9%) del 2014. Fra questi la quota dei giocatori con profilo “a rischio severo” si è praticamente quadruplicata rispetto a dieci anni fa. Si è passati infatti dai circa 100.000 (0,6% dei giocatori) stimati nel 2007 agli oltre 400.000 del 2017 (2,4% dei giocatori).
Con il suo intervento Serpelloni ha centrato l’attenzione della platea sulla dinamica di reazione del cervello delle persone che si confrontano con questa dipendenza.
È stato così evidenziato come i soggetti adulti che presentavano tale patologia condividessero una struttura genetica che, in modo più o meno accentuato, determinava nel loro cervello una risposta anomala rispetto agli stimoli sollecitati da questo tipo di gioco, che centra in una vera e propria sfida alla fortuna la sua caratteristica dominante.
Come osservato dal professore, le aree cerebrali coinvolte nel processi di dipendenza (alcol, droghe, tabacco e gioco d’azzardo) fondamentalmente sono le medesime. In tutti i soggetti che presentano tali patologie si può rilevare un’alterazione del sistema dopaminergico (le diverse aree del cervello preposte ad attivare le nostre reazioni in base alla gratificazione che traiamo da parte di uno stimolo). Questa disfunzione è responsabile di quelle reazioni anomale che, con comportamenti compulsivi, di fatto travolgono il soggetto, rendendogli impossibile controllare la situazione sollecitata dal gioco in una maniera coerente con le proprie necessità e le normali attese sociali. Ma se da una parte è la propria storia genetica a predisporre queste persone a comportamenti oltremodo audaci, l’attivazione della distorsione del proprio modo di agire, lungi dall’essere automatica, è scatenata da specifici fattori ambientali e sociali con cui questo tipo di persone interagiscono.
In particolare per il gioco d’azzardo Serpelloni osserva ad esempio che, a differenza del giocatore normale, il cervello di chi gioca in maniera compulsiva presenta una rallentata funzionalità della sezione di corteccia prefrontale preposta in genere alla capacità di autocontrollo; inoltre in questi soggetti sia il sistema di gratificazione che la modalità in cui si sviluppa l’attesa rispetto alla vincita (il premio finale che induce giocatori patologici e no a scommettere) risulta completamente diverso rispetto a quello della persona comune: se il giocatore normale attende il momento della rivelazione della vincita con una moderata aspettativa (proporzionandolo in genere alle effettive probabilità di successo) e tende ad aumentare al massimo i tempi di gratificazione emotiva solo dopo un’eventuale vittoria, quello patologico polarizza – attraverso un’evidente e alterata percezione dell’alea – proprio nell’attesa del risultato il massimo picco di soddisfazione che – contrariamente a quanto accade nel giocatore comune – non si azzera precipitosamente in caso di perdita, facendo persistere il desiderio di ripetere l’esperienza.
Nel giocatore patologico le modalità di reazione diversa nell’approccio e delle emozionalità rispetto al gioco d’azzardo non solo scatenano comportamenti ad alto rischio quando questi si trovano davanti ad un tappeto verde, una slot o un centro scommesse, ma li pongono in una condizione di fragilità assoluta anche nei confronti di stimoli, come la pubblicità, che li sollecitano al gaming.
Utilizzando le tecniche della Neuro Imaging (la possibilità di vedere, tramite risonanza o tac, quali aree del cervello si attivano a fronte di determinate sollecitazioni) il prof. Serpelloni ha mostrato cosa accade nella mente di un gambler quando viene esposto alle pubblicità che lo inducono a giocare. Un messaggio che può addirittura passare inosservato fra le persone comuni, infiamma invece l’attività neuronale nel cervello dei giocatori patologici, attivando tutte quelle dinamiche di astinenza che porteranno quest’ultimi a giocare nei tempi più brevi possibili, con tutte le conseguenze del caso.
Ma se appunto è provato che le dinamiche pubblicitarie, in età adulta, riescono a condizionare in maniera praticamente automatica quella fascia di popolazione che ha disfunzioni patologiche in tal senso, queste possono altrimenti irrompere con la stessa efficacia sia nella mente dei più giovani, a causa dell’immaturità della struttura neuronale del cervello che. completandosi intorno ai 20 anni di età, potrebbe non avere adeguate difese per proteggersi, sia in quelle dei più anziani, per il normale processo degenerativo a cui si è sottoposti in età avanzata.
Entrambe queste categorie sociali, pur prive delle disfunzioni genetiche che tipizzano il gambler, sotto lo stimolo di seducenti e pervasive campagne di comunicazione possono quindi facilmente scivolare nella patologia dell’azzardo e trovare nel gioco compulsivo un modo distorto per scaricare in esso le situazioni di stress, ansia o noia che tipizzano tali fasi evolutive.