Contraffazione e “Italian Sounding ” vere piaghe per i nostri prodotti
Cifre da capogiro quelle che riguardano il mercato della contraffazione, che investe ogni settore produttivo nazionale, mettendo a dura prova tutti i comparti aziendali, compreso quello agroalimentare. Secondo le ultime stime Ocse, per questo business truffaldino e criminale nel mondo si stima un volume d’affari che si aggira intorno ai 360 miliardi di euro – superiore a quello prodotto dal narcotraffico – e che inevitabilmente è destinato ad aumentare.
Le conseguenze sulla salute e sulla sicurezza sono spesso evidenti in alcuni settori, come quello alimentare o del farmaco, ma la percezione del consumatore continua in genere ad associare il prodotto contraffatto semplicemente ad un bene meno caro, tralasciando di considerare le questioni legate alla qualità, alla sicurezza e alle attività criminali che sempre accompagnano la fattura e la distribuzione di questi oggetti.
Per avere un’idea di ciò che accade in Italia, gli ultimi dati del rapporto Censis – Mise, riferiti al 2012, riportano gli alti costi sociali e umani legati al mercato della contraffazione nel nostro Paese. Un mercato che ha un fatturato illecito di 6,5 miliardi, che ha sottratto oltre 5 miliardi di gettito erariale ed ha impedito la creazione di 105.000 posti di lavoro.
Per quel che riguarda il settore agroalimentare nazionale, la situazione si presenta ancor più complessa. Il comparto oltre a fronteggiare la contraffazione – che però una volta individuata a livello normativo è disciplinata e punita in quasi tutti i paesi del mondo – deve confrontarsi con un altro fenomeno, quello dell’Italian sounding, ovvero di quei prodotti che per acquisire maggior appetibilità agli occhi del consumatore evocano un’identità italiana che invece assolutamente non gli appartiene. Parmigiano doc prodotto in Australia, italianissime Mozzarelle di Bufala in Kentucky, solo per fare un esempio e la lista potrebbe allungarsi all’infinito.
Come sottolineato dal presidente di Federalimentale, Luigi Scordamaglia, intervenuto al recente convegno di Confindustria per discutere proprio di questi argomenti, i prodotti dell’agroalimentare italiano nel mondo raggiungono in maniera occasionale un miliardo e duecentomila consumatori ogni anno, settecentocinquantamila dei quali sono consolidati.Il Made in Italy vende quindi da solo. Se ne sono accorti anche gli altri e se, come ricordato prima, la contraffazione è punita in maniera abbastanza severa a livello internazionale, a fronte del “sounding” le cose cambiano drasticamente.
Una possibilità di tutela è allora quella di strutturare sui tavoli esteri accordi bilaterali con gli altri stati che disciplinino meglio e a nostro vantaggio “il diritto di evocazione”. Ci si è riusciti abbastanza bene in Canada, si spera adesso di incidere in questo ambito specifico con il TITP (di prossima firma con gli Usa) e bisogna darsi da fare con l’Australia, dove vengono segnalati molti abusi in questo senso.
Scordamaglia indica anche un altro sicuro elemento di contrasto: quello della comunicazione. A tal proposito sono stati stanziati 30 milioni di euro per una campagna pubblicitaria molto ironica destinata ai consumatori Usa per sensibilizzarli e scoraggiarli dall’acquisto di prodotti che sembrano italiani, ma non lo sono. Ovviamente, si spera che questo investimento in comunicazione sia percepito anche dai produttori italiani e che questi si impegnino, per avere un tornaconto diretto dell’azione, ad aumentare le esportazioni dei prodotti originali nostrani.
La tutela del consumatore in Italia è comunque al primo posto nelle prerogative del legislatore nazionale, che ha sottoposto le nostre aziende ad un articolato insieme di procedure per garantire la qualità e la tracciabilità del prodotto.
Un carico necessario a garanzia del controllo del prodotto ma che – come ricordato da Lisa Ferrarini, vice presidente di Confindustria per l’Europa – se non ben armonizzato con le normative europee rischia di penalizzare la competitività delle aziende italiane rispetto agli altri Paesi Ue.
Se infatti a Bruxelles ci si è ormai orientati a garantire sul territorio dell’Unione l’originalità del prodotto, va ricordato che al di là di un Osservatorio sulla contraffazione, non ci sono Commissari dedicati specificatamente a questo settore. Questo si traduce troppo spesso in una mancanza di coordinamento nelle azioni sul suolo comunitario ed in decisioni – come quella recentissima di eliminare dall’etichetta il luogo di produzione, lasciando solo l’indicazione della sede legale dell’azienda – che rende difficile arginare e contrastare efficacemente il fenomeno.
Un grande aiuto potrebbe però offrirlo la tecnologia.
Un progetto tutto italiano Codentify – elaborato dalla Fata Logistics System e al momento applicato in via sperimentale nel settore del tabacco – permette attraverso l’applicazione sul prodotto di un codice alfanumerico di 12 caratteri di offrire tutte le indicazioni necessarie a garantirne l’originalità e a tracciare con sicurezza tutto il percorso effettuato nella sua distribuzione.
Di fatto una sorta di codice a barre che, garantito nella sua non replicabilità e falsificazione, garantirebbe attraverso un sofisticato sistema di interconnessioni telematiche un facile ed immediato controllo sul prodotto da parte di tutti. Anche del consumatore, che attraverso l’introduzione del codice Codentify nella App del suo Smartphone potrebbe immediatamente sapere se ciò che sta acquistando è vero o falso.